Sono gli anni ’70, due artisti hanno appena venduto la loro prima opera d’arte, festeggiano in un bar di Londra e dall'euforia della serata nasce un’opera che finirà in uno dei musei più importanti al mondo.
Non deve essere stato facile, in effetti, per due artisti appena diplomati in scultura alla St. Martin’s School of Art farsi strada tra gallerie e collezionisti, come portfolio da presentare unicamente la loro life box, una scatola riempita di memorabilia vari e oggetti – probabilmente visti dai più come cianfrusaglie – legati alla loro vita privata perché, dicevano, erano loro stessi ad essere arte.
Questa è una storia su Gilbert & George e sulla nascita delle Drinking Sculptures o Drinking Pieces, una serie di lavori che hanno segnato i primi anni della loro carriera pubblica. Gilbert Prousch, nato in Italia nel ‘43, nella zona delle Dolomiti, e George Passmore, nato invece nel Devon nel ‘42 – “Non è una collaborazione. Siamo due persone ma un artista solo” – sono l’esempio vivente di quanto l’apparenza inganni: definiti dal Giornale dell’Arte come “attempati rivoluzionari in giacca e cravatta”, dietro quella compostezza e quell’eleganza tipicamente british degli abiti in tweed, indossati quasi sempre coordinati se non identici, si celano dei provocatori che sono andati contro le istituzioni, l’establishment dell’arte, il “buon gusto”.
Una serata di festeggiamenti al Balls Brothers Wine Bar in Bethnal Green, dunque, in quello stesso East End di Londra che è stata la casa di Gilbert & George già dagli anni ‘70 e dove hanno vissuto per gran parte della loro vita senza spostarsi granché, perché “quello che succede nell’East End succede nel resto del mondo 5 anni dopo”. Questi Drinking Pieces sono una serie di scatti in bianco e nero, spesso sfocati, quasi a restituire quella percezione di annebbiamento che compare dopo qualche bicchiere di troppo. Dettagli di bicchieri, di tavoli e bottiglie diventano un pattern o, meglio, un mosaico che va a disporsi attorno al ritratto degli artisti. Qua e là compaiono anche delle scritte appese alle pareti del bar, “Just having a pint of throat varnish for a start.”, “You’re not here to have one with us so we’re sending you one... sup off!”, “Cheerio!!”, “Waiter!a cock-tail.”, “Garcon! Un vermouth cassis.”, immortalate al pari di qualsiasi dettaglio catturasse il loro sguardo e restituisse la realtà del momento.
È che per Gilbert & George l’arte deve parlare della vita (e non di quanto si conosca l’arte); anzi, l’arte e la vita sono la stessa cosa e quindi oggetti e momenti entrano direttamente in scena, o sono messi in scena per essere immortalati come se lo fossero. Nella scena compaiono anche gli artisti stessi, sono living sculptures: “Nel momento in cui abbiamo deciso di essere arte e vita, ogni conversazione con le persone è diventata arte, e lo è ancora”.
In contrasto con il minimalismo e il concettualismo imperanti in quei primi anni di carriera, Gilbert & George hanno lavorato e ancora lavorano sul concetto di un’arte comprensibile a tutti, di Art for All - come si è chiamato anche lo studio dei due artisti - un concetto di umanizzazione dell’arte che alla fine del secolo scorso risultava in un’arte forse troppo esplicita per non far storcere un po’ di nasi – almeno prima che Gilbert & George venissero riconosciuti tra gli artisti più significativi dei nostri tempi.
Balls or The Evening Before the Morning After, questo il titolo della prima delle numerose Drinking Sculptures che ora sono sparse in molte collezioni prestigiose, e che la Tate di Londra aveva acquisito già nel 1972, è composta da ben 114 pezzi, immagini frammentate, scatti di piccole dimensioni, che si dispongono in una griglia che preannuncia lo stile che avrebbe caratterizzato Gilbert & George non troppo tempo dopo. Un alone di malinconia sembra avvolgere però le immagini: quegli scatti non sono solo la rappresentazione di una serata euforica, quanto anche un ritratto della società della Londra di quegli anni. Sì Art for All, ma senza svuotare l’opera di contenuto, Gilbert & George nelle loro opere rendono visibili e riconoscibili argomenti scomodi, sbattendoli davanti agli occhi di tutti: morte, religione, potere, monarchia, patriottismo, identità e sessualità e spesso anche combinati tutti in un'unica immagine.
Alla fine, gli artisti potevano anche essere “tremendamente ubriachi alla sera, ma la mattina andavano nel loro studio dove facevano dell’arte perfettamente sobria”.
Il bere e la perdita della lucidità sono stati tra i temi ricorrenti dei primi lavori del duo, sullo stesso piano di altri temi controversi. Sembra però che George sia stato quasi astemio ed entrambi non fossero stati poi così abituati a bere alcolici, almeno prima di aver individuato nei drink quasi uno strumento di lavoro, una sorta di catalizzatore sociale al punto che bere era diventato parte integrante del loro lavoro, “a duty to perform”, ancora prima che un piacere.
Che i gin tonic facessero parte del loro lavoro è chiaro anche dal Gordon's Makes us Drunk, celebre opera del 1972 che celebrava il loro amore per il gin nonché un video dall’atmosfera assurda in cui i due artisti seduti ad un tavolo bevono l’amato drink ripetendo continuamente il titolo dell’opera con una musica di Elgar and Grieg in sottofondo; un amore che ha fatto creare indubbiamente delle opere miliari dell’arte contemporanea, ma che ha portato ai due anche qualche grattacapo, come qualche rissa di troppo nei bar.
Ed è dopo un periodo un po’ turbolento che i colori delle opere del duo iniziano a cambiare, la presenza dei due artisti nelle opere diventa meno performativa, si dedicano esclusivamente alla fotografia e al digitale diventando i Gilbert & George delle opere più note e più recenti.
Questo non vuol dire che il tema del bere venga dimenticato: Drunk with God è del 1983, ed è anche la prima opera in cui nella palette degli artisti vengono introdotti altri colori oltre al rosso, un’esplosione di colori ci conduce in una scena allucinogena. Gli artisti non si sono spesi in grandi spiegazioni ma non sono forse così necessarie, simboli che rimandano ad una situazione di scarsa lucidità sono disseminati un po’ ovunque in questa monumentale opera di quasi 5x11 metri: un calice di vino, chiavi smarrite dopo una nottata di festa, sigarette, piccoli scorci di Londra che sembrano quelli della città percorsa di notte, i ritratti degli artisti che tornano in diverse sezioni di questo lavoro. La suddivisione della scena, i colori, i contorni delle figure, la struttura “narrativa”, la grandiosità dell’opera ricordano un po’ le vetrate delle cattedrali, ma l’unica traccia di un dio in questo caso è nelle gigantesche mani che appaiono dall’alto sul lato sinistro. Una religiosa celebrazione delle conseguenze del bere?
Nonostante la loro costante sfida ai limiti, ai pregiudizi, alle convenzioni sociali, al buon gusto, quella di Gilbert & George è una carriera di un successo che pochi artisti al mondo possono vantare: hanno conquistato tutte le grandi cattedrali dell’arte, sono stati rappresentati dai più importanti art dealer del mondo, sono stati membri della Royal Academy of Arts (per poi dimettersi rumorosamente solo tre anni dopo). Il 1° aprile 2023 hanno aperto il loro museo, The Gilbert & George Center, naturalmente a Spitalfields, all’interno di un vecchio birrificio proprio nel loro East End.
E se vi state chiedendo se non ci sia tanto di istituzionale nella loro carriera, per due artisti così anti-istituzioni, sappiate che, alla fine, come registrano i cataloghi della Tate, le immagini dei Drinking Pieces sono state scattate in accordo con i proprietari del bar. Il locale era chiuso. Gilbert ha bevuto una coca-cola, George nemmeno quella.