Se si escludono i mesi del lockdown, in cui vendite e consumi hanno imboccato strade del tutto peculiari, i vini con anidride carbonica stanno registrando un successo esponenziale. Un universo articolato ed eterogeneo, in cui c’è davvero di tutto, che impone qualche riflessione e un minimo di chiarezza.
Prima, però, dobbiamo necessariamente fermarci a riflettere sui modelli di consumo e, soprattutto, sulle tipologie di consumatori.
Con i “Baby Boomer” (nati tra 1946 e 1965) fisiologicamente in calo, è la Generazione X (1966-1979) a “menare le danze” del mercato, mentre sono ancora sotto indagine sia i Millennial (1980-1996) che la così detta Generazione Z (1997-2012). Se, da una parte, la popolazione più matura non riserva grandi sorprese, i più giovani dimostrano di poter cambiare le carte in tavola.
Al netto delle ovvie differenze tra le ultime due fasce, i bevitori in erba hanno diversi punti di contatto: dall’attenzione alla qualità e alla sostenibilità ambientale, fino alla salute, con un conseguente e potenziale calo dei consumi.
Riflessioni che incidono sul borsino delle bevande nel loro complesso, non solo sulle dinamiche legate al vino.
Il fenomeno low-alcohol è evidente, con i cocktail che stanno vivendo un moneto magico, così come è sotto gli occhi di tutti il trend della birra artigianale. In generale, parrebbe in ascesa un tipo di bevuta più facile e spensierata, mentre appare meno forte il richiamo di prodotti complessi, sia sul piano materiale che ideale.
Per tornare al vino, i giovani sono forse meno affascinati rispetto ai “boomer” da concetti come tradizione, invecchiamento, struttura, complessità, ma preferiscono riempire i loro bicchieri con valori diversi rispetto al passato.
Fatto questo lungo preambolo, è forse più facile capire il successo dei vini con anidride carbonica, le così dette “bollicine”, termine non bellissimo ma efficace nel sintetizzare il concetto. Vini che evocano spensieratezza e leggerezza, aperitivi e feste, con un impatto tattile e alcolico delicato, quasi mai troppo impegnativo. Un po’ come le bevande alternative al vino che citavamo, a pensarci. Con la birra, ma anche con certi cocktail, i vini “mossi” condividono molto, a cominciare dalla carbonica; un elemento capace di veicolare gusti e profumi e di donare una decisa spinta al sorso.
Quali sono questi vini? La pattuglia è nutrita e in continuo movimento, tanto che l’oligopolio Charmat – Metodo Classico sembra messo in discussione.
Passo indietro. Lo Charmat, o “Martinotti”, prevede una seconda fermentazione in autoclave (una vasca di acciaio a pressione che permette la presa di spuma in maniera piuttosto agevole e in poco tempo), mentre la rifermentazione in bottiglia che sta alla base del Metodo Classico è quasi sempre accompagnata da zuccheri esogeni (saccarosio), capaci di attivare il lavoro dei lieviti. In questo caso le cose vanno più per le lunghe, fino ad arrivare a una permanenza sur lie di 4, 5 o addirittura 10 o 20 anni.
Simile a questo, ma forse ancora più coinvolgente e in via di recupero, è il così detto Metodo Scacchi. Il nome deriva da Francesco Scacchi, chirurgo di origine umbra (Preci) ma nato e vissuto a Fabriano, che, nel 1622 scrive il suo best seller: De Salubri Potu Dissertatio (Del bere sano). Qui, tra le altre cose, teorizza la produzione di spumante da rifermentazione in bottiglia, ma senza l’aggiunta di zuccheri estranei all’uva.
Se è vero che gli scritti storici sui “vini mossi” non mancano, da Galeno a Virgilio, dal medico bresciano Gerolamo Conforti (Libellus de vini mordaci, 1570) ad Andrea Bacci, Scacchi descrisse per la prima volta alcune importanti procedure tecniche, come sottolinea il celebre critico gastronomico francese André Louis Simon in Bibliotheca vinaria, libro pubblicato a Londra nel 1913 («This work contains a description of making sparkling wine»).
Uno testo importante, tanto che alcune copie originali si trovano nelle biblioteche di rilevanti maison della Champagne, facoltosi appassionati e note case spumantistiche italiane. La tecnica del Scacchi è diversa dal Metodo Classico in quanto non prevede l’aggiunta di “zucchero estraneo”, neppure dopo la sboccatura (dosage), ma solo mosto delle stesse uve, che può essere congelato e usato a piacimento o aggiunto “fresco”, la vendemmia successiva alla produzione del vino base.
Per chi considera il terroir un microcosmo in cui niente dovrebbe interferire e la produzione di vino qualcosa di olistico, una via decisamente affascinate.
Di clamoroso successo, infine, specie nell’enogalassia artigiano – naturale, è il metodo ancestrale, in cui la presa di spuma si ottiene imbottigliando il vino base con un certo quantitativo di zuccheri residui, rallentando o bloccando la prima fermentazione che completata il suo corso in vetro.
Sono i così detti pet nat, acronimo del francese petillant naturelle: vini dall’immagine scanzonata, semplici e agrumati, leggermente velati per via della permanenza dei lieviti in bottiglia. Se è vero quanto detto sui gusti dei più giovani, non sorprende il loro successo e i possibili sviluppi futuri.