Dall’anfora alla lattina

Dall’anfora alla lattina

Di Antonio Boco

Illustrazione di Antonio Bonanno

3 minuti

Nessun vino è “immobile”.

Definire alcuni prodotti classici o tradizionali implica una contestualizzazione, sia territoriale che temporale, con l’inevitabile evoluzione del concetto nel tempo. Possiamo dire la stessa cosa dei suoi contenitori, allargando lo sguardo oltre il liquido e cercando di cogliere le trasformazioni dei metodi di conservazione, scambio e trasporto del vino

Tutti conosciamo la storia delle anfore, con cui siamo ritornati a familiarizzare di recente per via della tendenza a utilizzarle di molti produttori contemporanei. I georgiani interravano le loro Kwevri, usate per la fermentazione e la maturazione del vino, più di 6 mila anni fa. Contenitori simili furono utilizzati da quasi tutte le popolazioni che ebbero a che fare con la produzione e lo scambio di vino: dagli Egizi ai Greci, fino ai Romani.    

L’innovazione arriva da nord. La botte in legno, usata soprattutto dai Celti, si diffonde rapidamente, sia per il trasporto che per il consumo nelle osterie. Il perché è facile da comprendere, vista la maggiore facilità di manovra e il peso sensibilmente inferiore rispetto all’anfora. 

Il vetro, invece, arriva di recente e si diffonde come mezzo di conservazione e trasporto del vino nel Rinascimento. Igienicamente perfetto, almeno rispetto ai contenitori del passato, era inizialmente molto costoso, tanto da consigliare la massima protezione di bottiglie, bottiglioni e damigiane. Chi ha presente i vecchi fiaschi impagliati dei Chianti, avrà già capito. 

La rivoluzione del vetro è così importante da portare all’invenzione di nuovi tipi di vino, o almeno alla loro definitiva consacrazione. Quelli che completano il loro ciclo produttivo in bottiglia, ad esempio, come la seconda fermentazione degli spumanti. Qualcuno ha detto Champagne

Stessa cosa, o quasi, vale per i vini rossi da invecchiamento che trovano in questo contenitore il compagno ideale per durare a lungo, magari con il contributo del tappo di sughero che supera chiusure in cuoio, legno, cera e molto altro ancora.
Argomento che sembrava archiviato, tornato invece prepotentemente d’attualità. Oggi la supremazia del sughero per sigillare le bottiglie di vino è messa in discussione, mentre si moltiplicano una serie di tappi alternativi. Tra questi, sembrano salire le quotazioni dello screwcap, il banalissimo tappo a vite. Dopo gli anni in cui ha fatto timidamente capolino, soprattutto su una fascia di vini economici, questo sistema sta conquistando anche segmenti premium. Di recente è nata un’associazione di vignaioli italiani che si chiama, emblematicamente, “Svitati”, decisi a investire sempre più in questo sistema.

Anche la scienza sembra dare ragione a questa scelta. Secondo il professor Fulvio Mattivi, ricercatore della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, forte delle analisi dell’Australian Wine Research Institute, condotte a partire dalla fine degli anni Novanta, il tappo a vite presenta una permeabilità all’ossigeno molto bassa e necessita di minor dosaggio di solfiti in bottiglia. Le prove sul campo, con degustazioni comparative, fatte sia su vini rossi che bianchi, mostrano come le bottiglie con tappo a vite siano uguali alle migliori bottiglie con tappo di sughero. Ovviamente senza le criticità di quest’ultimo, a cominciare dal classico sentore di tappo fino ai sempre più diffusi problemi di tenuta, passando per i temi legati alla sostenibilità e alla reperibilità.

Il problema non sembrerebbe dunque tecnico ma di costume. In Italia i consumatori sono particolarmente legati ai rituali e alle tradizioni, specie nella fascia di età più matura, faticando non poco ad accettare tutto quello che è innovazione.
Per comprendere di che parliamo, provate a immaginare l’imbarazzo di un sommelier che, al tavolo del ristorante, “svita” una bottiglia a due commensali, anziché stapparla dolcemente con un bel cavatappi. Altri paesi si stanno dimostrando molto più laici e pragmatici, preferendo soluzioni comode e sostenibili. Sui tappi e in generale sul packaging. Una frontiera in via di superamento, anche sui vini di qualità, è quella del bag in box. Molto apprezzato in Inghilterra e in Nord Europa, sta facendo passi da gigante anche da noi, con tanti progetti che propongono il vino “sfuso” in chiave moderna, green e molto comoda

Il prossimo passo? In molti dicono che sarà la lattina.
Non una novità assoluta, visto che questo contenitore veniva utilizzato già negli anni Ottanta. A cambiare sono però le motivazioni: mentre in passato era una questione di costi per vini a basso prezzo (ricordate le lattine con cui Giacobazzi pensò di invadere gli USA?), oggi è la praticità e la sostenibilità a guidare le scelte. In termini di peso, inquinamento legato ai trasporti e percentuale di riciclabilità, non c’è paragone con il vetro. Inoltre, anche la tecnologia è cambiata molto, così come la creatività dei designar che rendono questi contenitori sempre più accattivanti e “giovani”.
In altri settori, la “can revolution” è già a buon punto. Basta guardare quello che sta succedendo nel mercato della birra artigianale, degli energy drink e delle bibite analcoliche in generale, così come nel mondo delle acque minerali.
L’Italia è ancora una volta il mercato più lento a cogliere le innovazioni, ma il mondo del packaging sta cambiando.
Ne dovremo tenere conto, che ci piaccia o meno. 

Antonio Boco

Antonio Boco

Assaggiatore di vino, per passione e professione, collabora con alcuni dei più importanti editori italiani del settore. Tiene inoltre lezioni sull’enogastronomia di qualità ed è fondatore del magazine tipicamente.it, online dal 2009.

Antonio Bonanno

Nato a Catania nel 1970, è autore e illustratore di albi per ragazzi. “Premio popolare” al contest “Stop” 2022 e selezionato al contest “Caos” 2019, indetti dall’associazione Tapirulan. Attualmente vive a Bergamo dove insegna illustrazione e grafica pubblicitaria sia nel pubblico che nel privato.