Ho sempre avuto un pessimo istinto, devo ammetterlo. Per questo tutta la vita ho dovuto riporre una fiducia smisurata nella mia parte razionale, cercando di tenerla allenata e reattiva, e provando a farmi trovar pronto ogni volta in cui fosse necessario. Nel frattempo, ho combinato un sacco di casini, e fallito tutte le occasioni in cui mi sono ritrovato ad agire d’impulso o senza stare a pensarci più di tanto: nessuna eccezione, nessuna botta di fortuna, nessuna strategia di sopravvivenza. Le ho sbagliate tutte. Errori più o meno fatali, ai quali non so se col tempo ho posto rimedio, o se ho semplicemente lasciato stare.
Alla fine non ero più sicuro di niente. Quando ti prendono certi scossoni di solito, mentre barcolli, ti aggrappi a qualcosa di roccioso, di stabile, a qualcosa che abbia la stabilità monolitica delle cose vere, e per questo semplicemente…belle.
È a quel punto che ho iniziato a organizzare serate da me, rimanere solo era pensiero periferico e un pugno ben assestato allo stomaco, non sapevo più starci. Avevo sostituito l’idea con la convinzione che le giuste compagnie mi avrebbero ricaricato di qualche buona vibrazione, che sarebbe potuta tornare utile altrove, in altri momenti.
Il mio appartamento non era distante dal centro. Lo avevo arredato poco – in una maniera voluta che definirei “chirurgica ed essenziale” – ma riempito nel tempo di un sacco di dettagli che lo rendevano il mio posto, la proiezione dei miei pochi desideri e di tutte quelle cose che mi facevano star bene. Sono convinto sia stata la piccola reazione, per contrasto, del mio lato artistico perennemente sopraffatto da quello pragmatico. Qualche mobile indispensabile, la lampada ad arco che colava luce intensa sul tappeto di un viaggio memorabile in oriente, il tavolino Gae Aulenti al centro del salotto di cui andavo molto orgoglioso, il divano per cui avevo perso la testa, un giorno, in quel negozio vintage qui vicino. E poi tutti gli oggetti di design che avevo collezionato con criterio e disposto con cura negli spazi raccolti delle stanze e che facevano fibrillare i miei ospiti, gente appassionata a quel genere di attenzioni lì.
Gli appuntamenti da me divennero fissi, e memorabili molto presto: a un certo punto avevo iniziato a mettere insieme una selezione piuttosto accurata di liquori e distillati pregiati da bere con le persone giuste, cose che mi facevano impazzire per delle sequenze di particolari che agli occhi degli altri potevano apparire minuzie o dettagli di poco conto, ma che per me erano diventate importanti. Una cosa nata per gioco, tempo prima e chissà perché, poi mi sono convinto del fatto che una bottiglia potesse rivelare molti dei tratti autentici di un essere umano. Io ad esempio adoravo i rum, per quello che potesse significare. Di sicuro erano capaci di restituirmi un po’ di fiducia nelle cose del mondo, quando scivolavano giù, come velluti nella gola.
Avevo posto la bottigliera in bella vista, lungo la parete più estesa del salotto, con un ordine mentale ben preciso per provenienze e invecchiamenti, qualche volta per cromie. Era tutto in armonia con il resto dei miei oggetti, la somma appagante di piaceri diversi. Luci e ombre si ingoiavano a vicenda sui cristalli delle mensole, le loro traiettorie si disegnavano anarchiche sulle etichette. Le linee essenziali delle bottiglie conquistavano solennità che in origine non erano immaginate. Le scorrevo davanti agli occhi, ricordando i posti in cui ero stato, le donne che avevo avuto accanto, i dettagli di certi giorni speciali e gli stati d’animo che avevo provavo in quegli attimi. Era tutto maledettamente nitido, conservato come fosse in una bolla di sapone.
Trovare un liquore raro, o dotato di caratteristiche particolari che lo rendevano unico, era diventato il gioco e il pretesto per ritrovarsi a casa mia e anche il modo di risolvere i dilemmi di ogni volta su cosa regalare in occasioni più o meno speciali. Ero sempre stato un disastro, anche in quello.
Eravamo convinti che quelle bottiglie avessero un prezioso valore culturale e antropologico, per la loro capacità di avvicinare idee molto diverse tra loro, generare discussioni, approfondimenti, ricordi. Ci incuriosivano l’approvvigionamento, le caratteristiche e le lavorazioni delle materie prime, i molteplici savoir faire e le diverse professionalità coinvolte nelle produzioni. Oltre al modo in cui quegli spirits raccontavano di luoghi e persone, generando identità territoriali uniche e creando connessioni tra storie, tradizioni, vicende umane. Erano un miracolo, uno scambio continuo di riverberi, un flusso continuo di onde elettriche di rimando.
Una sera arrivarono con un pacco ancor più sofisticato del solito: tra le bottiglie scorsi un corno, o almeno è quello che intuii. Ci preparammo da bere qualche aperitivo aspettando che la cena fosse pronta, un paio di Negroni ready to drink, che mi salvavano sempre per rapidità e la miscelazione infallibile delle dosi, qualche Gin Tonic, con cui avevo preso le giuste misure, poi degli Old Fashioned, che avevo imparato a lavorare da Dio. Adoravo il momento in cui l’angostura avvolgeva lentamente le zollette di zucchero, ci vedevo qualcosa di inesorabile e affascinante in quel penetrare tra i granelli compatti. L’aria della stanza era carica di energia e buone vibrazioni.
Anche a tavola avevamo preso l’abitudine di accompagnare le pietanze con cocktail e miscelati, era il nostro modo di avventurarci ad esplorare, solleticando le nostre curiosità crescenti. Ognuno di noi adorava il gesto di rimuovere le capsule dai colli, stappare e inebriarsi dei profumi di quei liquidi soavi, miscelarli con perizia. Non pensavamo neanche di arrivare così lontano, e tirarla così a lungo questa faccenda, speravamo vagamente in qualcosa che ribaltasse il nostro stare in quel momento. Ogni volta era una magia, anche nelle occasioni in cui decidevamo di metterci in gioco con assaggi alla cieca.
Il corno, avevo visto bene, era un soave Mezcal. Lo sorseggiammo con una pazienza rara e appagante, ascoltando i racconti messicani di uomini e donne che compivano quel piccolo miracolo con amore. Qualcuno c’era stato per davvero in Messico, in giro per campi coltivati e case irraggiate da soli enormi, strade polverose e distillerie da racconti di Garcia Marquez, a vederlo dal vero, e respirare quel sogno. Chi non c’era ancora stato, invece, aveva impressa, nitida, la sensazione che quelli erano attimi di una felicità inaspettata, che sbucava dal nulla e ti prendeva alle spalle, avvolgendoti come una coperta.
Quando andarono via poggiai la bottiglia sulla mensola, con cura, accanto ai miei distillati caraibici preferiti. Era davvero bella. Le diedi un’ultima occhiata, pensai alla prossima occasione per il mio prossimo sorso, e ricominciai ad essere felice.