Siamo partiti dal Pian del Re che mi sembra una vita. Paolo è giovane e queste montagne sono il suo ambiente, al pari di un camoscio, anzi uno stambecco. Come loro non apre bocca, se non quando rumina curiosità che non trattiene in quella faccia da montagna.
A confronto, io devo sembrare un animale fuori contesto, un pachiderma. A pensarci proprio qui, adesso, mi viene da ridere. L’età non aiuta, certo, il sovrappeso nemmeno, ma la pensione è stato il primo momento utile per chiudere l’enorme giro della mia vita.
Tutto è cominciato quando mio nonno parlò di un condottiero che aveva valicato queste montagne con 37 elefanti. Me lo raccontava quando di elefanti non ne avevo visto neanche uno e, per quanto li immaginassi più fantastici di minotauri e chimere, nessun arazzo della fantasia si è sfilato di fronte al primo esemplare che ho visto dal vivo: una femmina di 41 anni, non lontano da Cape Town.
Ho dedicato tutta la vita agli elefanti. Una laurea in Scienze Naturali, una specializzazione in Etologia, tanti viaggi tra Africa e India; ho persino imparato a montarli da un cornac, un asiatico scuro e testardo che viveva come tutti i suoi colleghi in simbiosi con l’animale, e che mi ha insegnato a dar loro comandi usando alluci e talloni. I cornac non sanno l’animale, lo sentono. Io lo sapevo, ma avevo bisogno di sentirlo, anche se i miei colleghi europei storcevano il naso come ancora si fa in certe università.
A ogni modo, di fronte a quella femmina più vecchia di me che mi guardava negli occhi dalla punta dell’Africa, ho abbassato lo sguardo e ho cominciato a perdermi nella curvatura del tessuto in cui labbro e naso si fondono. Lì ho capito d’aver preso la decisione giusta: osservarli, raccontarli, cercarli fino alla fine delle mie forze.
Io e Paolo, invece, ci siamo conosciuti soltanto ieri sera; a cena. Avevo contattato una guida perché serviva qualcuno esperto di queste montagne; io prima d’ora le avevo viste soltanto dal basso. Per tutti questi anni ho pensato che l’atto di chiusura della mia vita con gli elefanti sarebbe stata verificare la prima storia che ho sentito su di loro. Era così vicina e così lontana; Annibale che attraversa le Alpi con 37 elefanti.
Tito Livio racconta che addentrandosi tra le gole alla ricerca di un valico, il generale trovò di fronte nient’altro che pareti di roccia, e dove non c’era roccia c’era neve. Allora sperimentò un metodo originale. Fece accatastare attorno a una rupe una gran quantità di legname e diede ordine che venisse incendiato. Quando la roccia divenne rovente la fece inondare d’aceto. Alternò fuoco e aceto finché la pietra divenne frantumabile con il piccone.
Probabilmente è leggenda ma alcuni colleghi zoologi, come sir Gavin de Beer, pensano che quel valico sia proprio questo colle che sto raggiungendo col sapore di sangue in bocca e che separa la Valle Po dalla Valle del Guil. Già, di là c’è la Francia, sto facendo il percorso inverso. Là sopra mi metterò a cercare tracce fossili, escrementi di animali fuori contesto, legna bruciata prima di nostro signore, odore di aceto resistito millenni.
Ho capito anche prima di ordinare da bere, ieri sera, che Paolo era di poche parole, allora ho cominciato a raccontare le cose sugli elefanti che colpiscono tutti. Che sono di tre tipi, quello indiano quello delle foreste africane e quello delle savane africane. Che questi ultimi sono i più grandi ma anche i più difficili da addomesticare, che Annibale probabilmente aveva usato i secondi perché i primi - quelli indiani, di altezza media e al garrese alti poco più di tre metri - erano i più costosi.
Gli ho detto che gli elefanti piangono, vegliano i compagni morti, possiedono una grande memoria e sono capaci di forti sentimenti: sono le femmine a guidare i branchi, a tenerli stretti e in armonia ad allattare i figli altrui, se necessario. Niente l’ha sorpreso, ma dopo un attimo di silenzio, finito di sorbire il suo minestrone, Paolo mi ha chiesto se fosse vero che gli elefanti sentono coi piedi. «Sì - gli ho risposto -. Hanno un ottimo udito ma le orecchie sono così grandi perché servono a disperdere il calore. Coi piedi sentono il mondo di lontano: le onde sonore dei barriti si propagano nel terreno. Sentono così anche i tuoni, e si dirigono verso i temporali per dissetarsi». Ci ha pensato un attimo, poi siamo andati a dormire che questa mattina la sveglia era puntata alle cinque.
A ogni passo respiro tre volte. E nel frattempo penso. Fatico e penso ai miei animali su per queste rocce straniere. Abbiamo cominciato a deportarli e a ucciderli molto presto. Di quei 37 elefanti ne sopravvisse soltanto uno, si chiamava Surus. Certo, di mezzo ci furono anche le battaglie, ma in fondo, montagne o savane che siano, sono state le armi la costante del nostro rapporto con loro. Sarà perché non sopportiamo le prove dell’esistenza di esseri più antichi e maestosi. A meno che le prove non si trasformino in trofei.
Quando arriviamo a qualche metro dal colle delle Traversette, Paolo posa lo zaino su una cengia di roccia. Sono troppo stanco per parlare ma lui capisce e mi spiega che lì sopra tira troppa aria; e l’aria dei tremila è “bastarda”. Mi siedo anche io, senza più forze. «Il mio lavoro è finito, ti ho portato qui dove dovevi essere - dice Paolo – ma, prima che tu cominci il tuo, propongo una pausa». Tira fuori da una tasca qualche noce e una barretta di cioccolato, condivide tutto. Quando finisce di masticare è la volta di una piccola bottiglia di liquore. Finalmente sorride: «Mio nonno saliva con la grappa – dice – ma a me piace più il gin».
Ne beve un lungo sorso, religioso, e quando mi passa la bottiglia dice: «ora tocca a te».
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Un racconto di Raffaele Riba per Oroboro.
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Diretto da:
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Pietro Verri
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