Non ho portato alcun dono agli sposi. Dopo la tempesta non mi sono rimasti che la vergogna di essere vivo e il sacchetto di cuoio con un pugno di terra che mia madre mi aveva lasciato: "Per esser certo di tornare a casa ne devi portare un po' con te", nascondeva la paura dietro promesse di preghiere.
Avevo appena compiuto vent'anni, era la prima volta che mi imbarcavo. Dopo di lei nessuno è rimasto ad attendermi. Ma c'è una festa alla quale non sono invitato e non posso mancare. Torno di nascosto, la campana mi accoglie insieme all'odore del sale. Mi era mancato il modo in cui il sole acceca la superficie dell'acqua; avevo dimenticato
potesse contenere quiete e bellezza, non solo furia e burrasca.
Della ciurma numerosa che eravamo, il mare ci aveva risputato in due: io e l'uomo che avevo chiamato capitano. Insozzato di sabbia della riva, deliravo di sacrilegi e punizioni dal cielo. Lui di audacia e limiti valicati, di un mostro ucciso con una singola freccia.
Divenne ricco vendendo le piume bianche della creatura che aveva ammazzato. Il governatore lo invitò a cena: liquore dorato e carne laccata di miele in cambio dei suoi racconti. Lì accanto sedeva la figlia, la ragazza dagli occhi rilucenti che faceva il bagno in mare nelle notti d'inverno, i capelli neri incollati alla schiena nuda, i muscoli duri come nodi di scotta. Una stretta di mano tra uomini e divenne sua sposa. Non le fu permesso di dire alcunché. Il capitano se la prese come a scoccare una freccia. lo, che conoscevo le sue menzogne, venni cacciato come un lebbroso che ha verità invece che piaghe. La giovinezza e il sole mi avevano annebbiato la testa, dicevano.
Della città riconosco i davanzali scrostati, gli affreschi dei santi a cui ci si affida prima di prendere il largo. Dalla villa del governatore viene il fragore della festa. Afferro i polsi agli invitati che s'affrettano; mi scacciano, mi danno calci come a un gatto senza padrone. Nessuno vuole ascoltare la mia storia. Sguscio dalla porta sul retro insieme ai servi. Le case dei ricchi non somigliano a una nave: tutto è superfluo, ovunque cose di vetro, fragile filigrana.
Trovo la sposa nella stanza più buia. Ha il viso coperto da un velo spesso come una tela di sacco. Dallo spiraglio di una feritoia guarda il cielo. Ha i capelli raccolti in trecce severe, non più sciolti e incrostati di sale come quando nuotava sola, d'inverno.
Si volta. Resto immobile, la volontà nei talloni.
"Entra. Ti stavo aspettando"
Vento buono che gonfia le vele, la sua voce. Non mi tratta da straniero. Mi offre da bere; un liquore che sa di zenzero e spezie dolci, brucia la lingua. Una gentilezza immeritata.
"Hai una storia da raccontare."
"Come lo sai?"
"Te la porti addosso."
Comincio dall'inizio della fine: la freccia che spuntava tra i seni della creatura ferita, il sangue che le colava sulla pancia e nell'ombelico come dentro una coppa.
Il capitano alzava la balestra, festeggiava la preda. I marinai dicevano che era peccato, che con la sua arroganza ci aveva maledetti.
La donna con le ali d'Albatross aveva volato intorno alla nave come una regina, immensa e lieve.
Riversa sul ponte della nave e sanguinante, si trascinava pietosa. Perché ero il più giovane, il capitano mi aveva ordinato di strapparle le piume, il resto gettarlo in mare. Mi ero rifiutato e mi aveva fatto frustare. La creatura che moriva mi aveva guardato coi suoi occhi scintillanti, scuri come mandorle amare. Poi si era coperta il viso con una delle sue ali poderose e non si era mossa più. Allora era iniziata la tempesta. Non so dire perché, tra tutti quei marinai duri di esperienza e fatica, solo io e il capitano abbiamo meritato di tenerci la vita.
La sposa butta la testa all'indietro, ride. Mi prende la mano bruna e coriacea. La carezza, le mie cicatrici venature nel legno di sorbo. "Vieni alla festa" dice, "ti voglio in prima fila." Le offro in dono il sacchetto di terra, lei mi chiude il pugno. "È la tua casa. Non la mia." Si alza, il vestito fruscia sulla pietra. Ha piedi nudi, gambe sottili come zampe di gru.
Ora gli sposi sono davanti all'altare nel giardino della villa.
Ovunque azalee, ortensie grandi come teste di squali. I posti accanto a me sono vuoti; gli invitati si lamentano della puzza che l'esilio mi ha lasciato addosso.
Il capitano ha la giacca coi bottoni dorati, l'arroganza di chi merita ogni fortuna. Tocca a lui alzare il velo alla sposa. Ha dita avide e frementi: le stringe il mento, rivela il viso. Lei ha gli occhi duri come mandorle. Sorride. Tra i denti bianchissimi tiene stretto qualcosa di piccolo e argentato: una punta di freccia.
Il capitano apre la bocca per gridare; al posto di un urlo dalle labbra sgorga una cascata di piume che gli leva insieme il respiro e la vita.
Le guardie incoccano le frecce, ma la sposa ha già spalancato le grandi ali bianche, piega le ginocchia e in un attimo è in cielo. Ride degli arcieri sparendo oltre il sole.
Nel fragore degli invitati che fuggono, chiedono pietà con unghie nei capelli e piangono forte, mi sento di colpo molto stanco. In tasca ho il mio sacchetto di terra; anche per me è arrivato il momento di tornare a casa.