Festival: dove essere più umani e bere meglio

Festival: dove essere più umani e bere meglio

Di Hamilton Santià

Illustrazione di Elena Beatrice

3 minuti

C’è un momento, tra il secondo riff di chitarra (o di tastiera) della band sul palco e il primo brindisi con gli amici che non vedi da mesi, in cui tutto sembra avere un senso. È il tempo dei festival musicali. Un tempo sospeso, in cui la realtà per un secondo si sospende e tutto però sembra avere un senso. Non un non-luogo, ma un ‘nuovo luogo’, quasi un ‘terzo spazio’ dove il reale si dilata, la musica diventa una lingua franca e la socialità non è un rito ma è legame tra persone che si riconoscono come parte di una stessa comunità. Non stai solo ascoltando, non stai solo bevendo. Stai partecipando a qualcosa che assomiglia molto a quell’idea di esperienza collettiva di cui abbiamo letto solo nei libri o visto nei documentari su un passato in bianco e nero ormai lontano. E lo fai non solo grazie alle canzoni, ma con un bicchiere in mano.

I festival musicali non sono solo un calendario di date, ma una mappa emotiva che segna territori da attraversare insieme.
In Italia spesso lo diamo per scontato, ma quello che fa il festival non è solo la line up. Quella sarebbe una ‘rassegna’. Il festival è anche l’atmosfera, il senso, la vibe. Ogni anno li rinnoviamo come rituali antichi (dove per ‘antico’ intendiamo gli anni 2000) ma con lo sguardo rivolto avanti: gente che arriva da lontano, che si accampa, che si riconosce nei dettagli – una maglietta dei Dinosaur Jr., un tatuaggio dei Joy Division, una citazione dei Fontaines D.C. – e che decide, almeno per quei giorni, di vivere il mondo per come lo vorremmo. Uguali. Senza confini. Votati al piacere.

Perché un festival non è un evento da consumare passivamente, come lo scroll compulsivo. È un’esperienza in cui l’ascolto diventa attivo, il corpo partecipa, la mente si apre. Non sei un pubblico, sei parte di un ecosistema potentissimo fatto di suoni, sguardi, passi sulla terra battuta o sull’erba umida. Dentro quel contesto, la comunità si ricostruisce non perché è obbligata, ma perché è desiderata. Si diventa parte di qualcosa che vale più del prezzo del biglietto: un’intelligenza collettiva fatta di sorrisi, balli, riflessioni, abbracci, scoperte.

E in questo spazio di incontro e di senso, anche il modo di bere si è evoluto. Se un tempo la bevanda tipica del festival era una birra calda servita in bicchieri di plastica impresentabili, oggi sempre più festival – anche in Italia – stanno integrando la cultura del fine drinking nel loro DNA. Cocktail bar curati, selezioni più raffinate, uno sguardo alla sostenibilità e alla qualità: bere bene è diventato parte della narrazione culturale del festival, e non più un accessorio marginale. E non si tratta solo di marketing o di storytelling. È una questione di gusto, certo, ma anche di consapevolezza.

Con l’aumentare dell’età media del pubblico – e con l’evolversi dei suoi gusti – è cresciuta anche l’attenzione verso il bere bene, responsabilmente, con piacere e misura. Non è solo una scelta salutista, è un gesto culturale. È l’idea che si possa costruire una memoria non solo musicale, ma anche sensoriale, legata a ciò che si è bevuto, condiviso, scoperto. Il cocktail bevuto al tramonto mentre suonano i Cigarettes After Sex. Il bicchiere di vino naturale durante il dj set notturno. Il sorso di birra fatto con calma, tra un cambio palco e l’altro, mentre si chiacchiera con qualcuno appena conosciuto e ci si ritrova a pensare: “Questo momento conta. E voglio godermelo fino in fondo.”

Cosa resta di un festival, allora? Le canzoni che non ascolterai più allo stesso modo. Le persone che forse rivedrai o forse no, ma con cui hai condiviso un pezzetto di mondo. Le parole scambiate in fila per un drink. Le note che ti risuonano ancora addosso quando torni a casa. E quel cocktail, bevuto mentre il sole tramontava sul main stage, che ha saputo raccontarti qualcosa in più sul piacere del vivere insieme.

Hamilton Santià

Hamilton Santià

Scrittore e musicista. Con i The Wends ha suonato negli Stati Uniti e in Inghilterra. Con “Sotto Traccia. Una storia indie contemporanea” (effequ) gira l’Italia parlando di musica. Ha scritto per dieci anni su Il Mucchio Selvaggio.

Elena Beatrice

Illustratrice e regista. Ha realizzato film brevi e documentari che hanno viaggiato in molti festival. Crea illustrazioni su commissione e porta avanti progetti legati al diario illustrato e al carnet de voyage come spazio di sperimentazione e di relazione, con se stessa e con il mondo.