Una pizza in verde e rosa. E un cocktail fresco e solare. Per dare un gustoso benvenuto alla bella stagione.
Al forno? Il maestro Giorgio Caruso, uno dei capitani di Lievità. Allo shaker invece c’è Davide Castelli, bar manager del Tusa. Entrambi operativi nella dinamica Milano. Per un pairing pétillant.
Lievità: pensiero verde
Semplicità. Serenità. Sostenibilità. Sono questi i valori portanti di Lievità. Realtà milanese (almeno per ora) nata nel 2015 grazie alla visione di un pokerissimo di amici. Diversi per provenienza ed expertise, eppur coesi e determinati nel portare avanti il loro sogno: il comasco Lorenzo Santin, il genovese Giovanni Grossi e i casertani Andrea e Gianmaria D’Angelo (fratelli) nonché Giorgio Caruso.
Il maestro lievitista del gruppo: millesimo 1983, un biennio formativo all’Accademia di Belle Arti di Napoli e qualche anno all’opera in una fonderia, come scultore. «Lavoravo il bronzo, l’alluminio e l’ottone. Con la tecnica della fusione a cera persa. Una tecnica molto antica, che purtroppo sta scomparendo», svela Giorgio.
Poi? Il cambio di marcia. O almeno, di materia e di temperature. Passando così dai metalli agli impasti di acqua e farina e dagli oltre mille gradi a quelli necessari per cuocer la pizza.
Questione di manualità, di artigianalità e di flessibilità. Il tutto unito a un profondo pensiero green che nutre Lievità e le sue cinque insegne. In ordine di apparizione: in via Carlo Ravizza (la capostipite), in via Pasquale Sottocorno, in via Varese, in via Piero della Francesca e invia Lodovico Settala (la neonata). Colonizzando diversi quartieri dell’urbe lombarda.
«E prossimamente apriremo in Piazza Vetra. Con vista sul parco e sulla basilica di San Lorenzo Maggiore. Sarà uno spazio grande, con un soffitto alto sette metri. E presto ci passerà la M4, la linea Blu della metropolitana», annuncia felice Caruso.
«Inoltre stiamo facendo il rebranding del marchio. Il che significa rinnovamento del logo, del lettering, delle divise e dei locali. Sotto il segno del creative director Fabio Mennella, founder di Antitetico. Col restyling siamo partiti da Ravizza. Che ora è più luminoso e gioioso. Fra i toni del giallo e del rosso. Complice un coloratissimo murale firmato dall’artista Luca Font.
Ma anche tutti i nuovi locali saranno impreziositi da installazioni artistiche».
Una vera primavera per Lievità. Certo, perché pensiero verde significa avere il coraggio di cambiare, di evolvere, di percorrere strade inedite, di far germogliare idee. Coltivandole in modo etico. Coerentemente col fatto che la griffe è nel frattempo divenuta una Società Benefit. Un bel traguardo. Che presuppone una serie di fattori virtuosi. Come perseguire un profitto buono e giusto; valorizzare l’identità e la diversità delle persone, facendole star bene sul luogo di lavoro, nel nome dell’inclusione; utilizzare materiali ecosostenibili e a basso impatto ambientale; non sprecare il cibo; selezionare produttori saggi e rispettosi dei territori; ricorrere a energie da fonti rinnovabili.
«Per questo abbiamo scelto come provider LifeGate. Per questo abbiamo optato per artigiani dal saper fare puntale.
Come il lab casertano Terramagna per i pomodori, il milanese L’Orto di Jack per le verdure e il salumificio bergamasco Edoardo Gamba per la filiera norcina e casearia. Per questo non gettiamo i gambi dei carciofi spinosi, sublimandoli in crema. Per questo se in un locale troviamo già il forno a legna lo manteniamo e lo riabilitiamo. Per questo la legna di faggio ce la procura Diego Bernardo di Macerata Campania. Un legname etico, che vanta una duplice certificazione: quella alimentare e quella FSC, a garanzia della provenienza da foreste a gestione responsabile». Prossimo passo? Diventare una B Corp. «Ma noi non abbiamo alcuna fretta».
E se verde è la filosofia di Lievità, verdissime sono le nuove pizze stagionali. Ecco allora la Pasqualina, con fiordilatte di Agerola, asparagi, uovo, fette di salame campagnolo e spolverata di parmigiano reggiano e pecorino toscano. Al 50 e 50. A rammentare lo scarpariello partenopeo e l’abitudine di sfruttare al meglio i formaggi che si hanno in casa, nel frigorifero.
«È una pizza che rievoca la frittata di Pasqua, ma in versione più delicata e leggera. Degli asparagi utilizzo le punte, saltandole in padella con aglio, olio, sale e pepe. Mentre trasformo i gambi in crema, utile a conservare le punte stesse, per mantenerne inalterati sapore, consistenza e umidità», spiega il pizza chef. Che mette a segno una pizza tonda di matrice napoletana, ma dal piglio contemporaneo e gourmet. Complici una buona idratazione, lunghe maturazioni e la farina Petra 3 dell’atesino Molino Quaglia. «E ogni giovedì proponiamo pure l’impasto con Petra 9 e farro monococco integrale bio».
Ma ecco anche la Macco. La pizza che Giorgio elegge a protagonista dell’ideale pairing col cocktail realizzato da Davide Castelli, bar manager di Tusa. Una pizza liberamente ispirata al piatto tradizionale siciliano: il macco di fave, in genere servito con i crostini di pane. Ma anche una pizza che ben ricorda la tipica merenda a ritmo di fave e pecorino. «Anzitutto pulisco i baccelli, sgranando le fave. Che prima faccio bollire e poi pelo. Una ad una. Eliminando la pelle e svelandone il cuore smeraldino. A questo punto frullo, sino a creare una vellutata delicata, dalle tenui note erbacee e ferrose».
A completare: la grassezza e la dolcezza di una pancetta arrotolata a mano e stagionata; la sapidità delle scaglie del pecorino toscano; la fresca aromaticità del basilico ligure; e la grinta, l’energia e la vivacità dell’extravergine monovarietale (di nocellara de Belìce) Il Principe di Pietretagliate: una dop Valli Trapanesi delle Tenute Pietretagliate e Regalbesi.
Per una pizza primaverile, pink e green.
Tusa. La semplicità è un’arte
«Per accompagnare la pizza Macco di Giorgio Caruso ho pensato subito a un drink leggero, non invasivo, non troppo acido e non eccessivamente alcolico. Un fizz, un long drink e comunque un cocktail pronto a contemplare fra gli ingredienti il vino, meglio ancora se animato da bollicine. Che con la pizza stanno sempre bene. Poi ho ragionato sulla mediterraneità delle fave e sul loro sposarsi bene con un’erba aromatica quale il rosmarino. Senza dimenticare il tocco erbaceo e ferroso del legume, che rammenta le nuance tanniche del tè. E senza trascurare gli accenni piacevolmente affumicati della pancetta. Raccolte le idee? Mi è venuto in mente di fare un twist sull’Old Cuban, un drink creato nel 2004 da una delle mie bartender preferite: Audrey Saunders. Una vera pioniera della new mixology newyorkese», racconta orgoglioso Davide Castelli, giovane bar manager del Tusa, il locale aperto nel luglio 2020 in via Pietro Borsieri, nel cuore del milanese e iper dinamico quartiere Isola.
«Così ho dato vita al Calypso Town. Come il genere musicale caraibico e come la dea greca del mare», continua lui, che proprio dai Caraibi pesca il Plantation Rum 3 Stars. Un rum bianco. Anzi, una selezione di tre rum, provenienti da tre differenti terroir, per tre diversi caratteri: quello vigoroso della Giamaica; quello elegante di Trinidad; e quello equilibrato di Barbados.
A chiosa? La filtrazione secondo il know-how della Maison Ferrand, esperta produttrice di cognac. «Sì, ho voluto usare il rum. Per affrancarlo dai soliti cliché del Daiquiri e del Cuba Libre», puntualizza Davide. Che fra gli ingredienti elegge pure la brasiliana Cachaça Magnífica Safra do Ano della Fazenda Do Anil, con sede fra le montagne di Rio de Janeiro.
«Ma non la uso pura. La faccio affumicare. O meglio, la metto in infusione col tè cinese lapsang souchong. In modo tale da ben legare coi sentori fumé della pancetta sulla pizza», continua il bar manager. Che per il suo drink adotta altre tecniche culinarie. Vedi la preparazione di uno sciroppo, ricorrendo a un infuso homemade di tè nero earl grey bio dello Sri Lanka (con oli essenziali di bergamotto) e aghi di rosmarino. Il risultato, complice un top di Prosecco, è un cocktail fresco e frizzante. Pétillant e primaverile. Semplice e solare. Perché è la semplicità la carta vincente dell’insegna. Di proprietà di GianMarco Senna e Fabrizio Casolo, già alla regia del Ghe Sem (della serie: dim sum cinesi riletti in chiave italiana).
Tusa. «Come ragazza in dialetto milanese. Come la ragazza della porta accanto. Come familiarità, confidenza, essenzialità. Così come easy e diretta è la mia miscelazione. Facile da spiegare. Facile da capire. In genere parto sempre dai grandi classici, per poi allontanarmi piano piano. Al punto che può accadere che il drink finale non ricordi nemmeno più il drink di partenza», prosegue mister Castelli. Classe 1992, radici nella brianzola Bovisio Masciago e studi superiori al liceo scientifico sperimentale. «La chimica e la fisica mi tornano sempre utili. Perché mi aiutano a capire meglio il perché e il percome di reazioni, pressioni, temperature».
E con la maturità in tasca? Scatta il sogno di iscriversi alla facoltà di filosofia. Ma qualche tappa lavorativa fra un rifugio a 2.600 metri a Madonna di Campiglio e un locale sul Naviglio basta a fargli cambiare rotta. «Mi piaceva stare dietro il bancone. Così ho iniziato a informarmi. Da vero autodidatta», svela Davide. Che inanella esperienze. Anche a Lacerba di via Orti. Poi il desiderio di andare a Londra, la pandemia e l’approdo al Tusa. «Sono arrivato in ottobre, pochi mesi dopo l’apertura. E visto che la struttura era quella di una caffetteria, in accordo con la proprietà abbiamo deciso di modificare gli spazi, le disposizioni». Traduzione: uno spazio intimo e raccolto, un salotto dall’anima vintage, nutrito dal verde, dal blu, dall’arancione, dal velluto e dall’ottone. Mentre bancone e bottigliera spiccano tra ferro, vetro e marmo nero. Fuori? Un ampio dehors.
Una dozzina i cocktail in carta. «Ma inserisco sempre un poker di Best Of della drink list precedente. Inoltre, ogni mese, presento una mini lista dalla triplice proposta, più stagionale, fluida e flessibile. A cui aggiungo sempre un distillato.
Servito puro e riletto in un cocktail. Può essere un tequila, una cachaça, un cognac. È un modo per far conoscere il prodotto, per raccontarlo al pubblico. Ed è pure un’occasione per fare un po’ di sperimentazione. Com’è accaduto col cognac Pierre Ferrand 1840, realizzando il Bâton Rouge, ossia un twist sul Manhattan. Grazie a Plantation rum, vermouth dolce, angostura e bitter». E fra i best seller? I can’t help myself: summa di London dry gin, lime, liquore al pompelmo e cordial al sedano e tè verde. «Mi affido alla Teiera Eclettica di Milano. Perché amo i tè in miscelazione. Sia per aromatizzare i distillati sia per realizzare sode e sciroppi». Naturalmente accanto a Davide, fra shaker e mixing glass, c’è pure una talentuosa tusa: la barmaid Serena De Simone.
Calypso Town
Ingredienti per un drink
50 ml Plantation Rum 3 Stars
30 ml succo di lime
20 ml sciroppo di tè earl grey bio e rosmarino
10 ml Cachaça Magnífica Safra do Ano affumicata con tè lapsang souchong
top Prosecco doc
Preparazione
Tecnica: shaker e double strain
Bicchiere: alto e stretto da fizz
Garnish: rametto di rosmarino
Procedimento
Preparare lo sciroppo. Prendere un tea spoon (7-8 grammi) di tè earl grey bio e aghi di rosmarino. Lasciare in infusione in 250 ml di acqua calda per 4-5 minuti e filtrare il tutto. Aggiungere 250 grammi di zucchero e far raffreddare.
Preparare la Cachaça Magnífica Safra do Ano affumicata, lasciandola in infusione per un paio d’ore con il tè cinese lapsang souchong.
Mettere tutti gli ingredienti (eccetto il Prosecco) nello shaker. Infine, procedere con un double strain, versando in un bicchiere alto da fizz. Aggiungere il Prosecco, mescolare delicatamente e decorare con un rametto di rosmarino.