Parigi non è una città. È un groviglio dei sogni originati da generazioni di artisti, di romantici, di scrittrici, di stilisti, di musicisti, di persone affamate di gloria e di poesia. Allo stesso tempo, Parigi è una città in piena regola, che se ne frega del nebuloso vortice di sonetti, pennellate e assoli che le soffiano intorno, a cui risponde rigida con i suoi prezzi inaccessibili, con il polso di ferro nei confronti degli affamati di pane e dignità. Queste contraddizioni la rendono spietata, ma non bastano a renderla meno affascinante.
Avendo vissuto la Parigi degli studenti in Erasmus, da ragazza ho potuto passare un anno a scegliere di guardarla con le lenti degli intellettuali di inizio XX secolo, facendo di Montmartre e Montparnasse i poli del mio mondo per due indelebili semestri di occupazione della Sorbona, pic nic sull’île Saint-Michel e pomeriggi in compagnia dei film di Godard ai vecchi computer della Cinémathèque française. Pericolosissimo, quindi, tornare in una città che potrebbe rivelarsi per quel che è, ovvero una metropoli pronta a calpestare chi non sta al passo con i suoi rincari. Fortuna vuole che io abbia un’amica che fa parte di buon grado della tribù di grandi artisti e sognatori che preferiscono vivere avvolti di arte invece che di pregiati comfort. E così, quando torno in città, inseguendo una mostra qui e un’esposizione là, la superba cantante jazz Corina Santana, si trasforma nel mio Virgilio, guida fidata con cui traversare la Senna, à droite et à gauche, in cerca dei luoghi più jazz di Parigi.
Per tuffarci in questo mare di ritmi in levare, temi e improvvisazioni, Corina mi porta da “Le 1905”, situato nel più parigino di tutti i quartieri: il Marais, tra Place des Vosges e il Quai des Célestins. Al numero 25 di Rue Beautreillis c’è una casa in legno dall’insegna in vetro dorato che racconta quelle storie che ci si aspetta da un locale jazz: pochi metri più in là, al numero 22, hanno vissuto Charles Baudelaire e Jeanne Duval, mentre Paul Cézane ne aveva fatto il suo studio.
Al numero 19, visse Jim Morrison, mentre nella vicina rue de Birague c’era il pied à terre di Francis Bacon. A questo curriculum artistico, si somma quello alcolico, perché proprio qui (nel 1905) fu fondata Aux Vins des Pyrénées, e venne inventato il tino a soffitto mobile, che impediva al vino di ossidarsi. Ma noi saliamo su per una scala che, seguendo la musica, porta al piano superiore, dove, negli spazi quotidiani in cui viveva la famiglia, ora ci sono un cocktail bar, una sala fumatori e tanto jazz. Gli arredi rimandano all’inizio del ‘900, così come i bicchieri, il jazz, le divise del personale e persino gli outfit dei musicisti. The charming swing band è il motore di una navicella spaziale che trasporta tutti al secolo scorso, con assoli di sassofono e la voce della cantante, nel suo perfetto abito color carta da zucchero.
Non posso che ordinare un Rive Gauche, con vodka, liquore al Sambuco, genziana e Prosecco: frizzante come la serata, aromatico, con un tocco di dolcezza tagliata quanto basta dal limone. Ma la scelta più azzeccata è quella di Corina, che opta per Pablo, ricordandomi che il jazz è azzardo: con tequila, peperoncino e peperone, il sapore deciso, piccante ma non troppo.
Se il 1905 è esattamente come ci si immagina debba essere un locale jazz a Parigi, già alla prossima fermata lo stereotipo si sgretola. Perché anche il jazz, qui, ha tante forme, tanti stili e coinvolge giovani studenti del conservatorio, immigrati che incanalano nella musica la nostalgia per la loro terra, vecchi musicisti di lungo corso e veri e propri maestri. Prendiamo la linea 5 della metro e raggiungiamo il XIX arrondissement: scendiamo a Porte de Pantin, al parco della Villette, dove, a poca distanza uno dall’altro si trovano la Cité de la Science, la Cité de la Musique e locali ormai iconici come lo Zenith o il Cabaret Sauvage. La nostra destinazione però è le Petit Halle, uno spazio semplice e ampio, fatto da un palco in legno, un bar senza pretese e una grande sala in cui ballare e lasciarsi andare, circondati da una struttura di vetro che affaccia in questo parco della cultura.
Ogni settimana qui si alternano musicisti francesi e internazionali, in particolare di jazz e world music, ma spesso i musicisti si trovano anche tra il pubblico, cosa che può dar vita a inaspettate jam e collaborazioni spontanee. Quando arriviamo, la serata è bollente e a prevalere sono le percussioni in stile world music: Cyril Atef tiene il palco dapprima come one man band, poi inizia a giocare con due percussionisti che portano i ritmi di Mauricious. È a questo punto che un gruppo di ragazze che balla nella folla salgono sul palco unendosi a questa jam session di sensi che ha preso possesso de la Petit Halle, portandoci nello spazio. Questa Parigi è caraibica, è “loud” ed è caldissima. Non c’è tempo per un cocktail qui, tocca ballare e sudare, e ogni secondo passato in coda al bancone sembra sprecato. È ora di una birra fresca, senza pensieri.
Ma tanto ci siamo allontanati dalla tradizione jazz, tanto ora ci rituffiamo dentro. Siamo a Saint-Germain-des-Prés, con i suoi palazzi medievali, i vicoletti in cui si inciampa in gallerie d’arte, vinerie e pasticcerie storiche, piccoli boutique hotel e brasserie ai cui tavolini sicuramente un tempo sedeva qualche intellettuale a far durare il più possibile un bicchiere di vino. Qui il Café Laurent riporta il rigore nel tema della nostra ricerca, come un’insegnante severo che rimprovera il nostro approccio poco ortodosso alla ricerca. Si tratta del bar dell’Hotel D’Aubusson, che ha ripreso il nome del mitico locale che qui, nel 1947, rimaneva aperto tutta la notte facendo ballare la gente negli scantinati.
Ora un piano bar occupa il salone dall’atmosfera un po’ retrò. È un mondo ovattato, elegante eppure minimale, dove sedersi su un divanetto di pelle marrone e sorseggiare uno degli ottimi cocktail mentre il musicista suona Foggy Day su di un grande pianoforte a coda e il cantante improvvisa facendo skat.
L’eleganza sobria del locale e del duo jazz torna anche nel bicchiere: il "Cheeck to cheek” raddrizza e contemporaneamente stuzzica il bourbon con succo e crema di pompelmo e un tocco di pepe di Timut. Il “33” è una grande lezione di classe, con il gin infuso all'ibisco, una crema al tè verde, Pimm's e quel tanto di lime che agisce come nota acida. Sorseggiare, tamburellare, dondolare la testa e lasciarsi cullare da questo mondo soffice e accogliente.
Quando poi siete pronti a bucare questa bolla di quiete, ributtatevi in strada, affrontate il Quartiere Latino, ignorate i “butta dentro”. Impossibile, invece, ignorare dei gendarme che circondano e buttano a terra dei ragazzi africani mentre siamo in coda per entrare al Baiser Salé, locale iconico, pare, ma così tanto che diventa impossibile entrare. Ci dicono di aspettare, ma l’attesa si allunga. Il contrasto di quel che accade in strada con l’immagine del concerto nel basement trasmesse su uno schermo stridono, così improvvisiamo e decidiamo che non basta la fama di “locale storico” per rendere un posto imperdibile. Voi però provate, magari prenotando, ad assistere a una jam il lunedì o il martedì (venerdì e domenica per i cantanti).
E così che ci troviamo nel XX arrondissement, in Rue de Bagnolet, al Quartier Rouge, uno di quei locali da film francese, con i tavolini di legno dove si sta stretti, gli infissi rossi con le vetrate appannate d’inverno e spalancate d’estate. Qui le jam session scivolano leggere come il vino rosso, io però sento che è il posto giusto per bere un kir, l’aperitivo francese classico, con il vino bianco e la crème de cassis. Qualcuno “picote” da un tagliere di formaggi, qualcuno parla a voce troppo alta, qualcuno cerca costantemente di entrare o di uscire. Ma i musicisti suonano ancora e ancora, si scambiano gesti che colgono solo loro, si inseguono in luoghi diversi da quello in cui li vediamo, dove lo spazio viene dettato dal ritmo e a noi non resta che cogliere quel che scivola loro di dosso mentre giocano con le note.
Ed è qui che la mia Corina prende il microfono e con “It Could Happen To You” mi regala il jazz più bello di Parigi: quello che capita inaspettato, mentre ci si scalda le mani pensando a cosa ordinare, quello che sembra esistere senza sforzo ma che nasconde anni di studio, di sacrifici e di ricerca di perfezione. Penso che sto per commuovermi, ma il jazz pensa anche a quello: mi consola e continua a rotolare per le strade di Parigi.