Le prime gocce di pioggia

Le prime gocce di pioggia

Di Matilde Piran

5 minuti

Nel fitto della foresta le prime gocce di pioggia si sentono meglio perché fanno tutte un rumore diverso.

Alcune cadono in alto, esplodono veloci sulle cime degli abeti e rotolano sugli aghi, altre trovano un varco nella vegetazione e rimbalzano sui cappelli dei funghi, si schiantano tra le foglie secche, spariscono assorbite dal muschio.

La Gente della Foresta ascolta l’acqua e cerca rifugio. I più piccoli si infilano tra le rocce o dentro i tronchi cavi che marciscono nel sottobosco; i più grandi volano o si arrampicano per trovare un buco nella roccia, per tornare nelle loro tane.

Quando la pioggia si fa battente, distinguere i rumori diventa difficile. Il suono non è quello di una cascata. Somiglia di più a una folla che applaude entusiasta e senza sosta, ma tra la Gente della Foresta sono in pochi a ricordarsi che cos’è una folla, che cos’è un applauso. Sono concetti quasi svaniti, anche nelle menti dei più vecchi tra i vecchi.

Dal fondo di una piccola grotta, l’acqua che cola all’ingresso sembra una tenda scossa dal vento. Dentro, la Gente che si è radunata forma un gruppo eterogeneo ma sereno. Due di loro hanno le antenne e le muovono senza sosta e senza soddisfazione: tutto è fermo, bagnato, statico. Tutto è in pausa.

Tre bellissime ragazze siedono su un masso con le ginocchia al petto e le schiene appoggiate l’una all’altra. Sono coperte di pelo rosso e fradicio e, si capisce, hanno un po’ di freddo. Per scaldarsi si sfregano gli avambracci e il naso.

Vicino all’apertura, un vecchio con piedi e cosce di stambecco annusa l’aria con gli occhi chiusi. Sa di terra umida, di foglie marce, di torrente in piena.

Lì dentro ci sono anche degli animali - animali e basta, animali antichi: quattro ragni su una sola ragnatela, due coleotteri verdi, una decina di minuscoli millepiedi e altri che, forse, nessuno riesce a vedere. Sono animali veri e quindi non sono mai tristi. La maggior parte della Gente della Foresta, comunque, ha smesso di invidiarli. Prima di invidiarli si sentiva superiore. Prima di sentirsi superiore si sentiva sola, spaventata, sopravvissuta.

Al vecchio con i piedi di stambecco capita di essere triste. Gli capita di essere triste, nostalgico, malinconico, ma anche allegro, euforico, coraggioso. Adesso, per esempio, è annoiato: il più umano tra i sentimenti residui. Il fatto è che la pioggia cade da ore. Il sole del mezzogiorno non si vede e al suo posto colano dal cielo delle saette lunghissime e poco luminose. Anche le ragazze hanno smesso di tremare e si lisciano il pelo a vicenda, pigramente, mentre i due con le antenne scandagliano le pareti a caccia di stimoli. Il vecchio si tiene la testa tra le mani e sbuffa. Pensa a un modo per ammazzare il tempo. Strano, per uno che si è sempre sentito preda.

Gli umani, del resto, sono sempre stati strani. Sotto i lunghi capelli grigi, nella mente svelta e ruminante, il vecchio nasconde tanti segreti. Per esempio, sa cantare. Gli piace farlo sottovoce, quando è sicuro di non essere ascoltato. Oggi, però, non ha voglia di fingersi più animale di quello che è. Guarda i fugaci arcobaleni generati dagli spruzzi d’acqua e, a bocca chiusa, lascia uscire le note. Sono suoni lunghi e profondi, un misto tra una ninnananna e un antico canto di guerra: una sorpresa, una carezza, una minaccia.

Coleotteri, ragni e millepiedi si dileguano, le tre ragazzine fulve tendono le orecchie, i due con le antenne le fanno vibrare forte. Non hanno mai sentito nulla del genere. Tutti si alzano in piedi, su due piedi. Si allontanano, si avvicinano, si guardano confusi. Il vecchio con i piedi di stambecco non li guarda, prende coraggio, e la sua voce riempie tutta la grotta.

Nella foresta più grande del mondo un vecchio canta, sereno e malinconico. Canta per la grande foresta, ma anche per i piccoli aranci intrappolati nelle aiuole e per i platani lungo le superstrade. Canta per le file ordinate di betulle da carta e per i nidi traballanti tra le loro foglie. Canta per gli alberi di Natale. Canta per gli animali degli umani: le mucche con le teste incastrate nelle mangiatoie, i barboncini con i cappotti, i gatti grassi. Canta per i pappagalli nella neve. Canta per le cose degli umani: per le ditate sulle vetrine e per i cartoni animati, per le liste della spesa abbandonate nei carrelli infilati uno dentro l’altro, per gli aspira briciole, per i wc chimici, per gli e-book.

Nella grande foresta, un uomo animale vecchio e sporco, con la barba e i piedi da caprone, canta perché è uomo e perché è selvatico. Canta e, in un modo o nell’altro, lo sentono tutti.

Dall’altra parte del mondo, un vecchio curvo, sfamato, assonnato, con i piedi gelati nelle pantofole foderate di lana, ascolta le prime gocce di pioggia. Fanno tutte un rumore diverso. Chissà come mai.

Matilde Piran

Matilde Piran

Laureata in Filosofia e diplomata alla Scuola Holden. Con Andrea Falcone ha scritto lo spettacolo teatrale Tutto storto (Marinetti Junior). Dal 2019 lavora per Holden Studios.