Osservando il futuro. Da un bancone

Osservando il futuro. Da un bancone

Di Cristina Viggè

Illustrazione di Giuseppe Liotti

Dipende. Da come e da dove si guarda il mondo di domani. Noi lo abbiamo voluto inquadrare posizionandoci dietro il desk d’ufficio di una grande Compagnia. Dietro il banco bar di un albergo di charme. E dietro il bancone di un boutique bar. Orientando la bussola verso il punto cardinale della felicità. 


Iguana. Rama. Luca. Tre visioni. Tre prospettive. Tre modi differenti di riflettere, pensare e ragionare sul futuro prossimo venturo. Sempre stando dietro una scrivania o bancone che sia. Sempre tenendo alta l’asticella della qualità. E sempre sintonizzandosi sulla frequenza dell’energia, del coraggio e della voglia di rinascere, ripartire e ricominciare. Per riveder le stelle dopo la tempesta. Immaginando nuove avventure nell’universo miscelato.

 

La spirale evolutiva di Iguana 

«Noi? Non ci siamo mai fermati. E abbiamo sempre lavorato. Chi in ufficio. Chi in smart working. Senza mai perderci d’animo». È ottimista Edelberto Baracco, alias Iguana, ceo di Compagnia dei Caraibi. Maison nata (nel 1995) nella torinese Vidracco, grazie alla lungimiranza di Dario Baracco, aka Tigre Ciliegio. Padre di Iguana e pure di Memfi. «Poi, man mano, ci siamo ingranditi. E non ci stavamo più. Così abbiamo deciso di trasferirci a Colleretto Giacosa. In una sede più moderna. Capace di rappresentarci al meglio. A soli tredici chilometri dallo storico quartier generale. Che rimane il luogo dove tutto ha avuto inizio», racconta fiero Iguana. Che, intanto, osserva positivo il futuro.

«Non ho dubbi sui principi da tener ben saldi. Anzitutto qualità e diversificazione. Non possiamo prescindere da questi due cardini. Sono fondamentali. Incarnano la nostra essenza. Anche dietro un banco alchemico dobbiamo mantenere viva e costante la nostra tensione al rinnovamento. Nel nome della diversità. Dobbiamo regalare un’esperienza. Un momento di piacere e di gioia. Un lieto distacco dalla quotidianità. Emergenza non significa ritorno all’economicità. Ma vuol dire puntare dritto verso l’emozione. Noi non ci sentiamo venditori di bottiglie», continua Edelberto. Dando voce al loro essere esploratori curiosi. Mercanti di idee e di messaggi profondi. 

«Il secondo diktat è l’arte dell’adattamento. Crediamo nella capacità di cambiare, mutare, evolvere. Ecco, sosterremo chi, come noi, abbia voglia di trasformarsi. Chi, come noi, abbia la forza e il coraggio di adeguarsi ai cambiamenti. Che, inevitabilmente, ci sono e ci saranno sempre». Della serie, essere camaleonti è un pregio. Non un difetto. 

«Infine, c’è un terzo dettame. E tocca la sfera dell’etica. Noi non siamo un Paese capace di fare la rivoluzione. Ma siamo in grado di creare le condizioni per un’armoniosa rivoluzione. Credendo nella libertà. Nella possibilità di massima espressione. E rinnegando l’omologazione. Ecco, noi vogliamo comunicare questo al mondo. Dietro o davanti un bancone. Proponendo prodotti iconici e identitari. Ambasciatori di valori. Liberi di esprimersi. Ma tutto questo presuppone una profonda conoscenza di se stessi. Vuol dire auto osservarsi. Sapersi astrarre. Per vedere il limite, il perimetro, il confine, la staccionata. E capire se sentirsi soddisfatti, restando nello spazio di comfort. Oppure se mettersi in discussione. Spostando il paletto».  

Temerario Iguana. Fiero di uscire dalla tana, per oltrepassare il guado. «Ormai contiamo 770 referenze, in quanto a spirits provenienti da tutto il mondo. Ma a settembre lanceremo il progetto vini. Naturalmente secondo Compagnia dei Caraibi. Partiremo dai vini che più ci piacciono. Per poi andare ad esplorare. Seguendo il fil rouge del viaggio, che da sempre ci caratterizza; del diario, perché amiamo appuntare, raccogliere e annotare quello che vediamo, scopriamo e conosciamo; e dell’identificazione di un dna preciso. Certo, noi cerchiamo l’elemento indigeno di un vino. Quel quid che lo contraddistingue e che lo rende unico. Può essere un luogo, un vitigno, un terroir, una persona, un racconto, una tecnica, una storia. Non scegliamo un vino perché l’etichetta è bella. Non consideriamo un vino buono solo perché è naturale. Noi vogliamo vestire i panni di chi sta costruendo quel determinato progetto». 

Mercanti di idee, non di bottiglie. «Inoltre col vino ritorniamo un po’ alle nostre origini. Alle radici. Noi nasciamo commercianti di vini. Siamo alla sesta generazione. E vogliamo completare, ricomporre il puzzle. In una sorta di ricongiunzione con il punto di partenza. In un’ottica di non spreco. E in una visione sostenibile anche dell’ecosistema vita», svela Iguana, ricordando l’incipit: con il trisavolo Tumalin Bartolomé Baracco de Baracho che avvia a Castellinaldo, nell’Albese, una bottega di “vini fini”. Circolarità, dunque. «Intesa come movimento. Fatto di tappe tangibili. Come ecosistema di naturalezza, lealtà e onestà. Come pensare al plurale, in modo corale e collettivo. Come visione olistica. Applicabile a tutto: ai prodotti, alle relazioni umane, al riciclo della materia. Come aspirare a una meta, non sentendosi mai arrivati. Ecco, forse più che un ragionare circolare, il nostro è un pensiero a spirale. Non è un girare intorno. Ma un muoversi evolvendo». 

Così la Compagnia si evolve. Non perdendo mai di vista il presente. E indagando le nuove frontiere della mixology da passeggio e del digitale. Con “I Love Menù”, piattaforma innovativa - nonché strumento completamente gratuito - che offre ai locali la possibilità di creare e pubblicare online la propria drink list. Nel segno del QR code, ma pure di un codice etico di sicurezza, funzionalità e sostenibilità. «Inoltre, proprio quest’anno, abbiamo aperto due filiali all’estero. Una in Spagna, a Madrid. E l’altra negli Stati Uniti, a New York. Del resto, noi siamo un’azienda di importazione, distribuzione e produzione. E il mercato straniero dà respiro anche alle referenze di proprietà”, precisa Edelberto. Ricordando i gioielli della tradizione, riemersi da un vecchio libro di famiglia, come il Vermouth Riserva Carlo Alberto, l’amaro Mandragola e il liquore Salvia & Limone. Ma non dimenticando altre etichette, più innovative, quali il bitter Rouge e il Mr. Three & Bros Ginger Falernum. «Ha preso forma da una condivisione di idee fra mio fratello Memfi ed Edoardo Nono, che già lo preparava homemade nel suo Rita & Cocktails di Milano», puntualizza Iguana.

«Desideriamo essere interpreti di una storia. Cercando di offrire ai distillati il palcoscenico migliore. Perché loro, gli spirits, hanno uno spirito. Sono vivi. Nascono, muoiono, si amano, si odiano, fanno famiglia. Hanno i loro momenti di successo e i loro intoppi. Ma, a volte, da un ostacolo, possono emergere delle opportunità. Ecco, noi cerchiamo sempre il lato buono delle cose. Modelliamo e coloriamo gli eventi che accadono e ci accadono. Orientando l’ago della bussola sui punti cardinali della bellezza e della felicità». 

Rama Redzepi e i sogni vista lago

«Aspetta. Che mi siedo in poltrona, mi accendo un sigaro e indosso le cuffie. Io ho un’intera collezione di cuffie. Le uso sempre. Per leggere, per ascoltare la musica. Soprattutto quella rilassante, new age, a tutta acqua e natura. Mi aiuta nella concentrazione. A raggiungere uno stato zen. Una dimensione che amo, soprattutto quando devo creare un cocktail. Certo. Non è che creo tutti i giorni. Devo essere ispirato. E quando lo sono mi metto in un posto isolato e ragiono sul drink che vorrei realizzare. Immagino gli ingredienti, cerco di capirli, di percepirne i profumi. E poi studio il distillato protagonista. Provo a comprenderne l’identità. Perché un cocktail non è la somma dei suoi componenti. Tutto sta nel bilanciamento, nel perfetto equilibrio, nell’empatia fra gli elementi. Nella ricerca dell’aroma e dell’armonia».

Al telefono parla Rama Redzepi: millesimo 1984, origini in quel di Pristina (capitale del Kosovo), un diploma Aibes in tasca e un presente alla Gin Lounge del Grand Hotel Fasano di Gardone Riviera, cinque stelle lusso sulla sponda bresciana del Lago di Garda. «Questa è la mia settima stagione qua. Pensare che iniziai come secondo bartender. Per poi passare a bar manager. Forse ho dimostrato di avere qualcosa in più. Der resto, questo lavoro è tutta la mia vita. Io non mi vedo a fare nient’altro. E tornare dietro al bancone dopo il lockdown significa rinascere. Regalando gioia e felicità. Perché noi doniamo un sorriso. Un momento di evasione. Un sogno. Non facciamo solo drink. Raccontiamo, dialoghiamo, entriamo in sintonia con l’ospite. In genere concentrato su ciò che sta bevendo. Distratto da pochi dettagli e calato in un contesto di calma. E questo per noi bartender è un vantaggio».  

Rama la chiama hospitality. Un concetto ben radicato in questo albergo d’ottocentesca memoria, costruito come residenza di caccia della famiglia imperiale austriaca, magistralmente guidato da Olliver e Patrick Mayr, e che vanta alla regia delle cucine l’executive chef Matteo Felter. «Io sono rilassato e tranquillo. Ma anche pieno di grinta ed energia. Noi siamo qui da 130 anni. E dobbiamo dare il buon esempio. Perché siamo un modello di charme per tutto il turismo gardesano», continua il barman. «E poi abbiamo moltissimo spazio. Ovvio, dovrò rimodulare i posti al bancone della Gin Lounge. Ma nel salotto le sedute sono ben distanziate. Inoltre possiamo contare sulla grande terrazza e sul parco. Si potrà sorseggiare un cocktail in giardino, sotto le ombrose magnolie, oppure sdraiati sul lettino, vicino alla piscina».

Intanto? Mister Redzepi pensa al room service applicato alla mixology. «Guéridon alla mano posso preparare un drink anche sulla soglia di una suite. Oppure, se gli ospiti lo permettono, proporre la preparazione live direttamente in camera. In alternativa? Ho studiato un kit. Un elegante vassoio con tre ampolle, dalla foggia di sigaro, ciascuna corredata di un biglietto con le istruzioni per l’uso. Un modo divertente, ma anche sensoriale, emozionale ed esperienziale di servire un cocktail. Persino lontano dal classico bancone». 

Sì, supera il banco bar Rama. Osserva il lago e riflette su nuove soluzioni. Ma non dimentica il passato. «Al principio fu una bella sfida. La maggior parte degli ospiti tedeschi bevevano vino. Ma intuii subito che qui c’era da fare e l’ho fatto. Non ci credeva nessuno. Introdussi il carrello per realizzare il Gin Tonic al tavolo. Sono partito da sette gin. E adesso abbiamo una bottigliera che conta un centinaio di referenze», continua orgoglio l’artigiano. Termine che lui ama associare alla figura professionale del bartender. «Certo. Io adoro fare le infusioni homemade. E sono molto concentrato sul tequila. Che è un distillato puntiglioso. Mentre il mezcal è un tipo più scontroso. Sto pensando a un twist sul Margarita, con un tequila lasciato in infusione con un tè early grey. Per smorzare il lato alcolico, facendo emergere l’erbaceo. Ma anche a un twist sul Paloma, col tequila infuso in un tè bianco aromatizzato al mango e bucce di limone. Il tutto impreziosito da una soda al pompelmo rosa e da un oleo saccharum di kumquat. Agrume della stessa famiglia dell’arancia». 

E mentre racconta, Rama ricorda. L’infanzia in Serbia, la campagna, le prugne del giardino, il balcanico slivovitz, distillato in modo casalingo dal nonno. E poi la musica del clarinetto, la guerra del Kosovo, la catastrofe. «Siamo scappati di notte. Senza nulla. Sono arrivato in Italia da profugo. Ma la sofferenza mi ha aiutato a crescere». Poi? La rinascita e il riscatto. Il soggiorno nel centro di accoglienza di Bibione. La cittadinanza italiana. E l’italiano. «È stata dura passare dall’alfabeto cirillico a quello latino». Ma lui, testardo e caparbio, non demorde. Impara. Studia da elettricista, fa il barista, va in Germania. Torna. E a Portogruaro, grazie agli insegnamenti di Remo Pizzolito, s’innamora di quello stare con classe dietro un bancone. Guardando l’orizzonte.

Luca Marcellin: il coraggio di essere different

In tempo di lockdown? Non ci ha pensato due volte, ha guardato oltre il bancone e si è detto: «Ora sono io che devo portare il drink a casa del cliente. Sono io che glielo devo far arrivare fra le mani». E così ha fatto Luca Marcellin: classe 1982, natali affondati nella torinese Sestriere e una carriera costruita, passo dopo passo, fra istituto alberghiero, diploma Aibes e una serie di cinque stelle lusso. Dal Pragelato Resort al Castillo Hotel Son Vida di Palma de Maiorca, dal Grand Hotel Du Lac di Vevey a Il Pellicano di Porto Ercole, dal The Jefferson Hotel di Washington al Four Seasons Hotel Casablanca, fino al Four Seasons Milan. «Ma dopo quattordici anni ero stanco. Non tanto di fare i drink, ma di tutto il contorno, della parte gestionale. E così ho deciso di cambiare. Per uscire dal mucchio. La mia fortuna è stata quella di confessare il sogno di aprire un posto tutto mio al general manager dell’hotel milanese. Che mi ha capito al volo, lasciandomi la consulenza in albergo per un anno. Così ho trovato il coraggio di volare. Perché era un salto nel vuoto. Ma col paracadute», racconta Luca. Che, nel luglio 2016, inaugura il suo drinc. Cocktail & Conversation (a Milano, in via Plinio), per poi aprire, nell’agosto 2019, il drinc. Different (nella vicina via Francesco Hayez). Sempre con la “c” al posto della kappa. Per sottolineare l’italianità, per differenziarsi, per essere unico e riconoscibile. «E poi con “inc” volevo far riferimento a incorporation», precisa il bartender. Affiancato, nella seconda insegna, dalla compagna Desiree Brunet. Anche lei forte di un background nei viaggi e nell’hôtellerie. 

«Nella proposta delivery e takeaway, battezzata drinc. Home, abbiamo voluto unire idealmente i due locali. Proponendo sei cocktail iconici, pescati da entrambe le drink list. Ma l’intento principale è stato quello di portare l’atmosfera del bar a casa. Cosa non certo facile. Ma ci abbiamo provato. Come? Rispettando l’artigianalità. Con drink preparati e imbottigliati poco prima della consegna. E offrendo tutto l’occorrente: ghiaccio, decorazione e qualche piccolo snack. Salato o dolce, per il pre dinner o per il dopocena. A corredo, una scheda scritta a mano con le istruzioni per l’uso e un elegante zainetto logato. Che magari si vedrà girare prossimamente in metropolitana», racconta Marcellin. «Il tutto completato da due messaggi su Whatsapp: uno per spiegare l’aperitivo e l’altro per comunicare con un video la nostra vicinanza, il nostro: fai come se fossi a casa tua. Insomma, il desiderio era quello che i clienti si prendessero cura di quel preciso momento. E la risposta è stata straordinaria. Con foto e messaggi toccanti. Da pelle d’oca». 

Fra le proposte? Da via Plinio: Ok, are you serious!?!?, un cocktail semplice dal gusto abissale e dal finale affumicato; Kapi… rai..;) Fidati!, una caipiroska contemporanea, preziosa del succo d’uva americana; e Puntoebbasta, rilettura più intensa di un Americano, ma con note balsamiche. Da via Hayez provengono invece il 100 Plus, omaggio al centenario del Negroni, ma con meno alcol e con una maggiore acidità; The Maestro is back in town, un drink sofisticato, avvolgente e delicatamente fruttato; e The Queen of the south, piacevole mix fra dolce e amaro, intitolato alla serie di Netflix. In una sapiente miscela di maestria, charme e ironia. Ingredienti che alimentano tutta la filosofia di Luca. Che, ovviamente, ha riaperto le sue due creature. 

«Entrambi i locali sono una sorta di evoluzione dello speakeasy. L’atmosfera è quella di un secret bar. Calma, riservata, ovattata, lontana dal grande passaggio. Però non esiste la parola d’ordine”, continua Marcellin. Che reitera - pure sullo zainetto - il suo mantra: “Because drinc. is not just a cocktail bar!». Mettendo l’accento su quel somigliare più a un lussuoso boutique bar. Pur non essendo in un hotel. E su quel proporre solo ed esclusivamente un accuratissimo servizio al tavolo (e al bancone, ma pur sempre placé). «Il drinc. Cocktail & Conversation sposa più uno stile post industriale e urban chic. In un dialogo fra pelle, legno e ferro. È decisamente funky-jazz. Anche nel sottofondo musicale. Invece, il drinc. Different vira sulla follia, l’energia e le vibrazioni dello swing. Anzi, è un twist moderno sullo swing. Un electro swing. Fra velluto, blu acceso, rosso, oro e atmosfere soffuse. Un luogo intimo, per coppie o per pochi amici. Per star tranquilli. E viversi appieno un’esperienza. Tra l’altro ora vi è pure un angolino all’aperto». Dopotutto, un drink si prepara dietro un bancone, pensando sempre a emozionare chi sta oltre quel bancone. 

Cristina Viggè

Cristina Viggè

Lombarda, millesimo 1970, una laurea in Lettere e una vita da giornalista. Scrivere? È come creare un cocktail. Bisogna bilanciare l'energia degli elementi materici, comunicando la forza dell'immaginario.

Giuseppe Liotti

Salernitano, classe '78. Disegnatore autodidatta, si laurea in Scienze della Comunicazione e lavora come storyboard artist in campo pubblicitario e cinematografico, collaborando con registi come Matteo Garrone. Disegna serie a fumetti per i Sergio Bonelli Editore, Le Lombard, Glenat, Rue de Sevres).