È una mattinata di aprile. Sono chinato tra le piante, immerso tra i rovi che abitano la ripa di un fiume. Sono consapevole del paesaggio attorno a me: il mio cervello ingrana marce basse, il flusso dei pensieri si è calmato. Mi focalizzo sul mio corpo.
Aprile, per i raccoglitori, è il cuore pulsante delle attività di raccolta e di conservazione. La natura che sta fuori si è scrollata di dosso il torpore dell’inverno e sta iniziando a convogliare tutte le sue forze in uno slancio verticale: le piante erbacee si tendono, dai rami degli alberi sgorgano le foglie.
Alle falde degli argini, nei luoghi dove il sole scalda il suolo, le fioriture già imperversano. Mi sposto verso una zona alberata e ombrosa dove scorgo le rosette basali della cariofillata, Geum urbanum, e le seguo.
Estirpo la pianta e conservo le radici, scrollate dalla terra.
Che cosa faccio? Sono immerso nell’atto senza tempo di raccogliere radici commestibili: qualcosa che il mio cervello conserva ancorato nel profondo.
Miles Irving, un forager inglese, la chiama "Gestalt": la somma di un’intuizione visiva, la capacità di scorgere una pianta e di riconoscerne la forma, il portamento, la posizione.
È un rapporto fisico e viscerale con la pianta, il tocco e l’odore, la ruvidità della foglia, il rumore che fa mentre la accartoccio, e poi il sapore, il retrogusto, il profumo della terra che stringe tra le radici. È l’abilità primitiva che il mio cervello stringe ancora, assopita, fin da quando era dentro al cranio di un primate, nelle migliaia di generazioni che portano al mondo moderno.
Se ci immaginiamo una linea del tempo della storia umana, abbiamo smesso di usare quest’abilità da molto, molto poco. Una frazione infinitesimale della linea, forse l’uno per cento.
Abbiamo perso la gestalt, e non è una cosa che si compra: serve fare conoscenza con le piante, piano piano.
Così, mi spingo giù per la ripa e nella bisaccia dove raccolgo piante spontanee, piante che si sono adattate all'ambiente in migliaia di anni, stipate di nutrienti, lontane dalle loro discendenti, le nostre verdure ed orticole.
I rizomi della cariofillata contengono l’eugenolo, un olio essenziale che conosciamo bene: è lo stesso che rende inconfondibili i chiodi di garofano, e giace qui, nelle radici di questo vegetale che abita il sottobosco ed i bordi dei sentieri, ormai semi-sconosciuta. Quando ho fatto la sua conoscenza, la prima volta, sono rimasto stupefatto: una pianta che, ben prima che le spezie iniziassero a solcare i continenti, macerava nelle birre d’oltralpe, e, soprattutto, riempiva gli stomaci e serviva come base per preparati medicinali.
Rosacea, appartenente, quindi, alla famiglia delle rose e delle fragoline di bosco, con cui spesso condivide l’ambiente, le troviamo abbracciate sotto agli alberi.
Le sue radici tagliuzzate finemente, infondono lo sciroppo che condisce le fragole, ed ancora, il latte, l’acqua delle tisane, la grappa e gli altri spiriti.
Il raccolto di oggi finirà in macerazione nel moscato che riposa in una damigiana, assieme ad altre spezie ed erbe, per diventare un vermouth selvatico.
Mi sposto tra i prati e le capezzagne, e cerco. Più che i sentieri battuti, seguo il linguaggio chimico delle piante. Radicate dove sono, impossibilitate a spostarsi, comunicano infatti così, con le molecole, gli odori e i profumi. Il centocchio copre una sporgenza terrosa, e sotto, il tarassaco rigetta dalle radici.
Poco lontano, sotto ai carpini, una forma che conosco, l’Alliaria petiolata.
È una pianta della famiglia delle Brassicaceae, come i cavoli e la rucola, che per deterrere gli erbivori ha sviluppato un bouquet aromatico molto speciale, un lieve sentore di aglio: è un meccanismo di difesa che ha sviluppato per allontanare gli erbivori di passaggio, ma che attira, invece, me e gli altri raccoglitori. Messa in bocca e masticata, i composti solforati si liberano tra i denti, in un sapore profondo tra l’agliato ed il cavolo. Non la estirpo, ma raccolgo solo poche foglie da piante differenti: finiranno in un pesto di pane secco, olio e nocciole.
Memorizzo la sua posizione: la ritroverò l’anno a venire.
Aprile è il mese perfetto per avere un primo approccio al foraging: proprio la fioritura delle piante, infatti, ci fornisce una carta d’identità sicura. Approcciarsi alle raccolte, però, è un’attività che richiede tempo ed esperienza.
Regola fondamentale è quella di raccogliere soltanto quello che si conosce per certo, quindi armatevi di amici esperti o iniziate il lungo e gratificante processo di frequentare corsi di riconoscimento sul campo ed imparare le regole di una buona raccolta.
La conoscenza delle spontanee è lungi dai meccanismi di consumo e dalla frenesia delle nostre vite. Piuttosto, si stratifica: una pianta alla volta, lentamente, arricchendo di entità vegetali la mappa dei luoghi che ci circondano.
Buone raccolte!