Siete mai stati ad un vernissage?
Sarà anche passato un po’ di tempo da quando potevamo girare con i bicchieri in mano tra i lavori di una mostra scambiando qualche chiacchiera con artisti e ospiti, ma anche se la memoria potrebbe iniziare ad annebbiarsi, sarà sempre difficile - se non impossibile - ricordarsi di un’occasione simile senza drink.
Non c’è appuntamento mondano del mondo dell’arte che non sia reso più brillante dalla presenza di qualche bollicina, o anche da qualcosa di più forte.
Un collante sociale? Un aiuto a concentrarsi sull’interpretazione delle opere? A voi la scelta! Certamente questo connubio quasi indissolubile tra il buon bere e il mondo dell’arte non è assolutamente una novità.
Immergiamoci per un attimo negli anni ’60, nella famosa Factory di Andy Warhol, dove non mancavano di certo le feste; quella “fabbrica” di creatività”, spazio creativo a 360 gradi, in cui si mescolavano feste e arte in un territorio senza confini di musica, cinema, poesia, fotografia.
La Factory era frequentata dai personaggi creativi della scena underground newyorkese, ed era famosa per le sue feste all’avanguardia ma anche trasgressive, in cui l’alcool era spesso e volentieri ospite d’onore. Mick Jagger, Allen Ginsberg, Bob Dylan, Lou Reed, Jean-Michel Basquiat, sono solo alcuni dei nomi dei personaggi che frequentarono la Factory; i The Velvet Underground and Nico hanno lavorato proprio tra quelle mura al loro primo album, di cui Andy Warhol disegnò la famosa copertina.
Andy Warhol aprì la prima Factory in un edificio di cui oggi non esiste più traccia: era il 1962 e venne coniato questo nome che fu mantenuto anche dopo il 1968, quando ci fu il primo trasferimento al sesto piano del Decker Building, al 33 Union Square West, vicino al Max's Kansas City, un club che Warhol e il suo entourage avrebbero frequentato spesso, e poi in quella che venne identificata come Silver Factory, dal colore particolare delle pareti e degli arredi e che venne inaugurata con un “party epocale”, secondo lo stile di vita decadente e spensierato, pieno di soldi, feste, droghe e celebrità – che ha ispirato anche diversi film.
Andy Warhol scelse il nome del suo studio proprio per richiamare il concetto originario di “fabbrica”: quello spazio, oltre ad essere teatro di feste perché “la vita è una festa e tutto deve trasformarsi in una festa”, era il luogo dove venivano, spesso letteralmente, assemblate le opere di questo artista diventato un’icona.
Ma chi era Andy Warhol?
Nasce a Pittsburgh, in Pennsylvania, il 6 agosto 1928. Figlio di emigrati slovacchi, è Andrew Warhola all’anagrafe; introverso e riservato da bambino, la sua vita cambia radicalmente quando si trasferisce a New York alla fine degli anni ’40. Viene notato da alcune gallerie piuttosto rapidamente, mentre lavorava come pubblicitario ed illustratore per importanti riviste e aziende nella Grande Mela.
Artista poliedrico e dalle mille sfaccettature, Andy Warhol probabilmente non ha mai voluto essere l’artista controcorrente.
La sua produzione artistica rimane sempre in qualche modo influenzata dalla sua vena da pubblicitario: ancorata alla quotidianità, che diventa protagonista delle sue opere. Oggetti di uso comune, legati alla dimensione consumistica della società di quegli anni, irrompono nel mondo dell’arte grazie all’artista, che sembra non voler esaltare in senso celebrativo, ma semplicemente “registrare” e mettere sotto una lente di ingrandimento questa nuova società dei consumi. Ma quello che veramente lo ha reso un artista rivoluzionario non sta tanto nei soggetti o nell’estetica delle sue opere, ma nella pratica: è il primo artista a rendere seriale l’arte, a svincolarsi dalla produzione manuale, da quella dimensione artigianale tradizionalmente legata alla figura dell’artista. Andy Warhol è un manager, che spesso si limitava a supervisionare il lavoro dei suoi collaboratori all’interno della Factory. Non immaginiamolo chino sulla tela con un pennello in mano, la sua filosofia era un’altra.
Tra le prime opere prodotte in serie, nonché tra le più famose, c’è Campbell’s Soup Cans, che rappresenta le 32 tipologie di zuppa Campbell allora in commercio. Warhol porta sotto i riflettori la banalità di un prodotto che era sulle tavole di tutti gli americani, incluso l’artista che era abituato a mangiarla praticamente ogni giorno, restituendone un valore completamente diverso.
Quest’opera fu presentata in una mostra in cui le zuppe Campbell erano le uniche protagoniste e che non fu – pensate un po’ - completamente capita dalla critica né dal pubblico. L’opera è oggi esposta al Museum of Modern Art di New York ed è su tutti i libri di storia.
Degli stessi anni sono anche i suoi primi ritratti di Marilyn Monroe. Anche la diva del cinema diventa un’immagine di consumo e il suo volto verrà ripreso diverse volte dall’artista nel corso della sua carriera, così come quello di altre icone pop dell’epoca. Ma se l’immagine della Monroe viene tratta dal poster del film Niagara, così come il volto di Mao Tse-tung venti anni dopo sarà tratto dal Libretto Rosso, diventano numerose le celebrità che vogliono essere immortalate da Andy Warhol, ormai all’apice della fama anche se contemporaneamente non esaltato dalla critica che contestava il suo approccio all’arte troppo “commerciale”.
Non sono tutte lustrini e celebrità, però, né l’arte né la vita di Andy Warhol.
Forse un po’ meno conosciuta, per esempio, la serie Death and Disasters, in cui l’artista tratta delle morti come di incidenti aerei o automobilistici, se non di esecuzioni sulla sedia elettrica, ma con la stessa cifra stilistica che impiega per rappresentare un ritratto di Elvis Presley o una lattina di Coca Cola. Silver Car Crash, una di queste opere, è stata tra l’altro battuta all’asta nel 2013 come una delle opere più costose della storia.
E se anche l’ultima opera – o meglio l’ultimo ciclo di opere, perché si contano più di 100 versioni dello stesso soggetto - a cui Andy Warhol ha lavorato è stata, anche un po’ profeticamente, The Last Supper, ispirata proprio all’Ultima Cena di Leonardo, noi torniamo ai nostri giorni e a quello che rimane delle nostre feste con After the party, una serie realizzata a partire da una fotografia in bianco e nero di bicchieri e piatti sparsi, animati dai colori che sottolineano quell’atmosfera piacevolmente caotica, frenetica e di eccesso che ha segnato la storia di Andy Warhol.
Dopo questo fantastico approfondimento sulla vita e sulle opere di Warhol, non possiamo far altro che congedarci con un brindisi in suo onore.
Abbiamo chiesto a Filippo Sisti, bartender e chef, pioniere della cucina liquida, di creare un cocktail all'altezza del genio di questo artista.
Ecco a voi il Born Colorful:
5 cl di succo melograno
4 cl di Bitter Rouge
Marmellata di zucca e birra
2 cl di lime
Decorare con polvere di melograno, violetta e semi di zucca.
Al prossimo viaggio nel mondo dell'arte!