Ho iniziato a bere alcolici – in dosi pediatriche, chiaro, e di gradazione ben sorvegliata – fin dalla prima preadolescenza, grazie all’elasticità di vedute propria di chi mi stava attorno: genitori, nonni, zii... tutte persone appartenenti a generazioni per le quali concedere a un ragazzino una goccia di vino o di birra non avrebbe potuto certo ucciderlo.
A tutti quanti loro va la mia eterna riconoscenza, perché quella curiosità assecondata è diventata un lavoro, il mio lavoro attuale, che continua a piacermi ogni giorno e che non cambierei mai.
E il passaggio da “curiosità” a “lavoro” si è compiuto attraverso un’altra transizione, ad esso implicita: quella dalla pratica iniziale del “bere” a quella del “degustare”.
È stato più o meno attorno ai vent’anni quando ho avvertito il pungolo che mi sollecitava a cambiare prospettiva: non più la semplice “consumazione” di un prodotto alimentare, bensì il saper descrivere l’esperienza di quella consumazione.
Descriverla, sintetizzarla, annotarla con un criterio e metterla a disposizione in una prospettiva di futura memoria, a beneficio del sottoscritto o di chiunque altro mi chiedesse conto dei miei assaggi. Tutto ciò per dire che, quando si discute attorno alla questione se “bere” o “degustare”, posso affermare in tutta coscienza di “sapere ciò di cui si sta parlando”, per averla vissuta direttamente, quell’alternativa.
E dunque, quando mi è stato proposto di sviluppare il tema dei “consigli di degustazione”, ho accolto l’invito con grande piacere.
E allora, a proposito del “degustare”, una raccomandazione preliminare a mio avviso importante è che si tratta di un esercizio da… non prendere troppo sul serio.
Mi spiego meglio: non con l’enfasi, un po’ drammaturgica, con cui talvolta lo si fa, dandosi insomma un po’ di arie.
Ecco, torniamo coi piedi per terra: la degustazione è un’attività che non è destinata a salvare il mondo, ma, molto più concretamente, un’attitudine con cui migliorsi in quanto consumatori. Si degusta per imparare a conoscere meglio le proprie preferenze o antipatie; per ottimizzare il gesto dell’acquisto (dunque della spesa) e, in questo caso, della bevuta (dunque della soddisfazione che ne deriva). Chiaramente, i dati acquisiti attraverso questo percorso di automiglioramento, di crescita, possono essere condivisi con altri, ma mantenendo la faccenda su un piano strettamente pratico. Niente teatralità, niente prosopopea, niente sentenze lasciate cadere dall’alto.
Ecco perché, tanto per cominciare, in luogo del termine “degustazione” (e di tutto il vocabolario che gli gravita attorno) mi piace utilizzare di più, in quanto non gravate da certe incrostazioni sussiegose, locuzioni quali “assaggio analitico” o “indagine sensoriale analitica”.
Infatti esattamente di questo si tratta. Pensiamoci bene: mentre io bevo, in automatico, ricevo un responso immediato: “mi piace” o “non mi piace”; e ciò grazie alle modalità di funzionamento di un apparato di raccolta e di elaborazione del dato organolettico il cui meccanismo, per attivarsi, non implica da parte mia alcuno sforzo. A tale risultato di sintesi, del tutto inconsapevole, si contrappone la pratica dell’assaggio consapevole; la quale è per propria natura analitica: suo obiettivo, infatti, non è limitarsi ad acquisire quei “mi piace” o “non mi piace”, ma spiegare il loro perché. E questo comporta la scomposizione di quel responso automatico (il “mi piace” o “non mi piace”), in tante valutazioni parziali, da trarre attraverso un’indagine condotta lungo le varie sfere sensoriali coinvolte nell’esperienza di una consumazione alimentare (qui, si è detto, una bevuta): la sfera visiva (sondata gli occhi); la sfera olfattiva (scandagliata con il naso); la sfera gustativa, la sfera gustolfattiva, la sfera tattile, la sfera trigeminale (esplorate mediante il palato).
Messo agli atti quanto sopra, per dedicarsi con soddisfazione alla pratica, decisamente divertente, dell’assaggio analitico, ci sono un po’ di accorgimenti assai utili da seguire. Primo: allenare i propri sensi.
Ad esempio: nel sorseggiare una batteria di birre, mi accorgo di trovare difficoltà nel rintracciare e descrivere le note speziate?
Corro ai ripari con un esercizio mirato: mi procuro un bel po’ di vasetti di spezie e inizio a costruirmi una “banca dati” di sensazioni inerenti a quel campo olfattivo.
Secondo: operare quanto più possibile in un contesto di condizioni neutre.
Luce solare, orario intermedio tra due pasti principali (e bocca non condizionata dalla traccia di gusti impattanti), silenzio o almeno assenza di eccessivo rumore, ambiente privo di odori interferenti (cattivi o buoni che siano), mente sgombra da pensieri che possano essere causa di distrazione (compresi i pregiudizi, negativi o positivi, legati al marchio).
E ancora, birra servita in modo corretto: la mescita, in primis, deve espellere l’anidride carbonica disciolta in supplemento nel prodotto a fini conservativi, lasciando solo quella corrispondente a una proporzionata carbonazione. Birra servita alle giuste condizioni di temperatura: ogni tipologia ha suoi valori preferibili; comunque meglio non sforare i 15 gradi in alto e i 6 in basso.
Birra servita in bicchieri puliti (pena rischi quali compromettere la formazione della schiuma) e tali, per la loro geometria, da non svilire il prodotto: anche qui, ogni tipologia ha i suoi modelli consigliati; e comunque esistono forme versatili, definite appunto “da degustazione”.
Quanto allo svolgimento dell’assaggio, è opportuno eseguire alcune manovre.
Impugnare il bicchiere in modo da non trasferire, attraverso la mano, troppo calore alla massa liquida della birra.
Guardare il bicchiere ad altezza occhi, con una sorgente di luce di fronte: per valutare colore, aspetto (limpidezza e trasparenza), schiuma della birra (altezza, persistenza, grana delle bollicine e colore del reticolo stesso). Guardare il bicchiere dall’alto verso il basso: e apprezzare, sotto un’altra angolazione, la grana della schiuma stessa). Guardare il bicchiere con una fonte di luce alle spalle e contro uno sfondo bianco: per una prova ulteriore circa la tonalità di colore della birra. Quindi (tenendolo fermo o roteandolo delicatamente lungo l’asse longitudinale) portare il bicchiere vicino alle narici e con esse effettuare aspirazioni alternate e ripetute: con ciò si misura l’intensità olfattiva della birra, la sua finezza complessiva (verificando l’assenza di difetti), le sue peculiarità aromatiche (occhio: ogni olfazione meglio non si protragga oltre i 10 secondi, tempo limite, statisticamente, per evitare fenomeni di sovraccarico delle informazioni sensoriali acquisite).
Infine, si procede al sorseggio, introducendo una piccola quantità di birra in bocca e facendolo circolare in ogni angolo di essa, lingua compresa, ovviamente. È l’operazione con cui si traggono considerazioni attorno a tutta una serie di parametri: l’intensità gustativa della birra, sua persistenza dopo la deglutizione; il comportamento tattile, cioè relativo ai requisiti di corpo, effervescenza, eventuale calore alcolico o al contrario freschezza, eventuale astringenza o piccantezza o altro; la condotta gustativa, cioè riferita ai gusti fondamentali ovvero dolce, amaro, sapido, acido, umami.
C’è poi una conclusione riassuntiva da trarre.
A parte il “mi piace” o “non mi piace”, questa birra quale livello esprime in ordine al proprio stile (o tipologia) d’appartenenza?
Detto che uno stile (o tipologia) - cone abbiamo visto nel mio primo articolo, dedicato proprio alla categorie - corrisponde grossomodo a quello che in un vino può essere il senso del disciplinare secondo cui lo si produce (ad esempio di una determinata Docg o Doc o Igt), è chiaro come, per rispondere a questa domanda, occorrerà inserire nel proprio “archivio di conoscenze” i dati d’assaggio di un congruo numero di esemplari facenti capo allo stile (o tipologia) di cui si parla.
Ad esempio: si ha di fronte una Pilsen? Ebbene, il suo livello è valutabile solo avendo, a monte, una conveniente esperienza di degustazioni riferite a quel campo d’indagine.
A proposito di vini, un mio insegnante mi disse: “Guarda, per imparare a giudicarli, devi berne a ettolitri”. Diligentemente, così ho fatto. E per la birra vale lo stesso…