Purtroppo, l’anagrafe è uno di quei dati che puoi, magari, sì, nascondere (o meglio mascherare), ma certo non modificare.
E per chi scrive si tratta di un fattore che comincia a diventare dolorosamente sensibile, dato che, la sua carta d’identità, alla voce “anno di nascita,” riporta, preciso preciso, il 1967. Il che definisce l’appartenenza a una generazione per la quale, parlando di birra, le questioni relative al servizio erano vissute come assolutamente marginali, quando non del tutto irrilevanti o, peggio ancora, alterate da una visione distorta e sostanzialmente errata. Per fortuna, il processo di graduale avvicinamento, da parte del nostro Paese, a un costume brassicolo più consapevole, più rispettoso del prodotto e, per questo, più corretto, ha messo in luce, e fin dai primi passi di quel percorso, come invece le modalità di mescita rappresentino elementi fondamentali per valorizzare appieno l’esperienza della bevuta. Insomma, la forma è anche sostanza.
In due parole, quando, noi adolescenti di allora, attorno alla prima metà degli anni Ottanta, ci “facevamo” una birra, le “regole d’ingaggio” erano più o meno queste: ben fredda (livello igloo), molto ben gasata (protocollo idromassaggio) e senza schiuma o quasi. Altrimenti la sorsata non dava soddisfazione.
Ora, lasciando per il momento da parte il tema del “termometro” - esso stesso cruciale, ma avremo modo di parlarne, con una puntata appositamente dedicata di queste nostre “pillole” d’approfondimento - concentriamoci invece sul secondo e sul terzo di quelli che oggi possiamo ben dire costituiscano delle enormi cantonate. È infatti un dato di fatto oggettivo quello per cui ogni stile birrario prevede sue ottimali temperature di mescita (comunque tali da poter percepire gli aromi contenuti nel bicchiere e, in tal senso, il naso umano inizia ad accusare difficoltà al di sotto dei 6 gradi centigradi).
È altrettanto vero ed evidente poi, come le stesse operazioni di riempimento di quel bicchiere incidano, in positivo o in negativo, sulla capacità della birra stessa di esprimere appieno il proprio potenziale organolettico.
Partiamo dal vocabolario: mescere, versare, spillare. Sostanzialmente tre sinonimi: eppure il terzo, per convenzione, lo si riserva al caso in cui il servizio avvenga facendo uso di un impianto. L’etimologia? Eccola: in passato, quando si attingeva direttamente dalle botti, lo si faceva piantando, in un punto funzionale delle loro doghe, un manicotto acuminato, detto “spina” (da cui tutte le ben note locuzioni in cui questo termine è contenuto) oppure spilla, da cui, appunto, il verbo spillare. Ciò detto, l’obiettivo di una mescita (quale che sia lo strumento con quale le si esegue), è sempre e solo uno: consegnare la birra nel modo migliore per consentirne un assaggio il più appropriato e appagante possibile. Ebbene, a tale riguardo, la quantità di gas presente nella massa liquida che si sta servendo è un parametro decisamente importante. La maggior parte di quel gas (di norma anidride carbonica, talvolta quella sua miscela con azoto chiamata carboazoto) svolge infatti una funzione meramente conservativa. In altri termini, se guardiamo al livello complessivo dell’effervescenza che una birra presenta al consumo - indipendentemente dal fatto tale livello sia ottenuto per rifermentazione, oppure per insufflazione o, ancora, per mantenimento isobarico della pressione nel trasferimento dal tino di produzione/maturazione al recipiente di confezionamento - dobbiamo tenero conto di come quell’effervescenza sia stata calcolata in modo largamente eccedente rispetto a quanto richiesto in fase di sorseggio.
Vi state chiedendo perché? Ecco la risposta: perché nei recipienti di confezionamento (bottiglia, fusto, lattina) lo spazio di testa è opportuno venga saturato, di gas appunto, al fine di scongiurare nella misura migliore possibile, o almeno di ritardare, quei fenomeni di ossidazione della birra che sono tanto naturali e inevitabili, quanto pregiudizievoli per la sua personalità sensoriale (l’aroma e il gusto si “incupiscono”; la fragranza s’infiacchisce; si formano composti chimici di timbro sgradevole). Per dare un’idea di massima: la birra di cui si sta parlando esce dal ciclo produttivo con pochi grammi litro di CO2; già in una bottiglia saliamo in doppia cifra; e passando al fusto classico (in acciaio, con bombola di propulsione, sempre carica di CO2, per spingere la birra stessa lungo le tubazioni dell’impianto) quella doppia cifra può andare addirittura a un ulteriore raddoppio. In poche parole: servire la birra con un gesto lento e debole, così da non far formare la schiuma, è il presupposto per versare nel bicchiere una vera e propria piccola bomba di anidride carbonica. E questo risultato è nocivo, per il prodotto che ci si accinge a consumare, in virtù di almeno tre motivi:
1) una carica di carbonazione eccessiva, a causa dello stress tattile al quale sottopone i recettori del palato, compromette un’adeguata valutazione della birra con cui si ha a che fare e delle sue qualità
2) una bella coroncina di schiuma è, essa stessa, garanzia di migliore conservazione, ponendo un argine a quei fenomeni ossidativi, di cui si è già detto, la cui azione risulta chiaramente più veloce e ficcante, quando, dall’ambiente protetto di un recipiente di confezionamento, si passa a quello “senza schermo” del bicchiere. Per farla breve: il contatto diretto con l’aria è, in sé, veicolo di perdita del potenziale organolettico
3) la tutela del proprio stato di sobrietà; la CO2, infatti, funziona da leva accelerante sul processo di transizione dell'alcol nel sangue e ne aumenta la rapidità di assorbimento da parte del nostro corpo
Per tutto quanto appena detto, è consigliabile dunque, nel versare una birra, osservare alcuni accorgimenti, eseguire alcune “manovre”. Partendo con il bicchiere a 45° e raddrizzandolo progressivamente, si aumenta la distanza tra il vetro e il punto di partenza del flusso di spillatura (il beccuccio di una spina, il collo di una bottiglia e così via…), formando così un adeguato cappello di schiuma. Eventualmente, se reso necessario dal veloce riempimento del bicchiere stesso, si attende il calo della “torretta” di bollicine e si procede a un secondo/terzo “colpo” di mescita. L’importante è avere un prodotto ben protetto dal contatto con l’aria e messo nelle condizioni di poter conservare le proprie prerogative gustolfattive il più a lungo possibile, nel tempo che s’impiegherà per completarne la bevuta. Quanto al servizio da bottiglia, se contiene sospensioni non omogeneamente diffuse nella massa liquida, ma al contrario depositate sul fondo, può essere sensato – dovendo “porzionare” quella bottiglia su più bicchieri – roteare la bottiglia stessa attorno al proprio asse longitudinale per recuperare una piccola parte di quei sedimenti, per dosarne omogeneamente l’entità nei vari recipienti di destinazione. Attenzione, lo sottolineiamo: una piccola parte di quei sedimenti; e non la loro totalità, perché in questo caso la loro proporzione potrebbe essere tale da alterare, a sua volta, il gusto della birra.
Ah, forse è superfluo sottolinearlo, ma per scrupolo meglio farlo ugualmente: i guasti di una cattiva mescita, in particolare quelli legati alla mancata espulsione del gas in eccesso, danno il peggio di sé (a meno di accorgimenti particolari, da parte del produttore, nel gestire la saturazione durante il confezionamento) quando si “tira giù” una birra direttamente dalla lattina o dalla bottiglia…