“Ciao Roberto, sto per andare in Messico. Mi potresti dare alcuni contatti? Mi piacerebbe visitare alcune distillerie, conoscere i produttori, vedere i campi e raccogliere l’agave”.
Ecco il messaggio più frequente che mi manda chi vuole andare in Messico.
Tutti infatti sognano di visitare le piantagioni e di raccogliere l’agave come fa il “Jimador” – ovvero colui che si occupa della raccolta delle piante – un personaggio che i professionisti della bar industry hanno idealizzato nel corso del tempo.
Del resto, il fascino che sprigionano i campi immensi e sterminati di agave è qualcosa che difficilmente si può spiegare a parole e ricordo che anche io e Cristian, vedendo per la prima volta i terreni coltivati ad Agave Azul, ci sentimmo come bambini al parco giochi.
I proprietari della distilleria che visitammo tempo fa, ci vennero a prendere all’aeroporto di Guadalajara; furono da subito molto cordiali e ci portarono a visitare diverse distillerie, percorrendo una semplice strada statale e spiegandoci alcune usanze del luogo.
La cosa che capimmo subito fu che il tequila, e in generale le piante dell’agave, rappresentano il concetto di “festa”.
Era fine settimana e lungo la strada c’erano molte cantine dove la gente si riversava a bere tequila, “Michelada” – bevanda alcolica fatta con birra, succo di lime, spezie varie e succo di pomodoro – mangiare, assistere ad esibizioni dei “Charro” – i nostri "butteri", i pastori a cavallo tipici della Maremma – e condividere il tempo libero in totale relax con amici e parenti.
Mentre viaggiavamo verso la distilleria l’occhio ci cadde sui campi di Agave che, grazie alla luce del sole, riflettevano un “Color Azul” che ci incantò immediatamente, andando a creare un momento unico e incancellabile nelle nostre memorie.
Quando parliamo di coltivazione, è bene ricordare che esistono tre diversi metodi per far crescere l’agave.
Il primo metodo è il classico della coltivazione dei campi: si creano dei filari mantenendo delle distanze ben prestabilite tra una pianta e l’altra in modo tale che si possa evitare di generare uno stress all’agave durante la crescita. Questa pratica permette di avere piante più robuste e dal più alto rendimento.
Il secondo è il più affascinate ed è quello dell’agave silvestre; la pianta cresce spontanea, senza vincoli se non quelli imposti dalla natura e viene rispettata solamente una regola: bisogna sempre lasciare una parte di pianta nel terreno.
L’ultima tecnica è quella del semi-coltivato: le piante vengono coltivate in serra per i primi due anni per farle rafforzare e poi vengono potate in natura in una condizione quasi silvestre.
“Qual è la soluzione migliore?”, vi starete chiedendo. La risposta ce la diede Sergio, un amico produttore: “L’unica arte utile per coltivare l’agave è la pazienza, aspettando il momento in cui la pianta avrà fatto il suo percorso naturale, senza troppi interventi esterni”.
Con questa spiegazione Sergio ci fece capire che non importa come viene coltivata, ma la cosa importante è rispettare la pianta e rispettare l’ambiente che la circonda, evitando di usare sostanze chimiche per la sua crescita.
Ovviamente può capitare che, per proteggere le piante, si debbano usare sostanze chimiche.
Una delle piaghe di cui hanno paura tutti i produttori è il “picudo”, un temibile parassita che attacca la pianta divorandone il cuore, il Mezonte, dove si trova la più alta concentrazione zuccherina.
Per far fronte a questa sciagura però, si può fare affidamento anche a tecniche naturali e semplici come, per esempio, circondare le piante più deboli con piante più robuste che il picudo non riesce ad attaccare, o sacrificare piante extra mature per “far sfogare l’insetto”.
Ma torniamo a parlare del jimador!
Come detto, è una figura quasi mitologica che si occupa del taglio della pianta, un lavoro molto faticoso e inteso se pensiamo che, in una giornata tipo di lavoro che va dall’alba a metà mattina, i jimadores tagliano circa un centinaio di piante a testa.
Quando provammo noi a svolgere le mansioni di un jimador ci rendemmo conto di quanto sforzo facciano ogni giorno: nello stesso lasso di tempo in cui ognuno di loro tagliò cento piante, io e Cristian ne tagliammo una ventina (e pure male!).
Quella del jimador è una mansione che richiede tecnica ed esperienza che solitamente vengono tramandate di generazione in generazione. L’attrezzo più rappresentativo del jimador è la “Coa” – un lungo coltello a punta tonda –, ma ovviamente non è il solo: abbiamo incontrato persone che utilizzavano l’ascia o il machete, a seconda dalla pianta e dalle condizioni del terreno.
Una cosa sicura è che questo tipo di raccolta non si può fare meccanicamente, ma solamente a mano scegliendo le piante migliori e mature al punto giusto.
Per molti produttori la scelta dello stile di taglio è fondamentale; in base a quanto viene rasata la foglia che circonda il cuore della piña, si inizia a strutturare il DNA del profilo organolettico del futuro distillato. Nella foglia, ad esempio, c’è meno zucchero rispetto al cuore, ma sono presenti altri elementi come la lignina e la clorofilla che in lavorazione potrebbero apportare un sentore amaro e sgradevole.
Il lavoro del taglio è quindi basilare e tanti produttori si affidano al lavoro e alla tecnica custodita dalle famiglie dei jimadores che garantiranno un alto standard qualitativo.
Dietro alla produzione di un distillato si muove una filiera molto importante: dal “Campesino”, il contadino, che con la sua pazienza coltiva l’agave nel miglior modo possibile, al jimador che, con le sue conoscenze secolari, dona un tocco unico al profilo organolettico del liquido.
È dunque di vitale importanza preservare questa catena lavorativa che dà da vivere a moltissime famiglie e rafforza la qualità e l’unicità dei distillati da noi consumati.
Salut!