Dentro il disciplinare sul Vermouth di Torino

Dentro il disciplinare sul Vermouth di Torino

Di Fulvio Piccinino

Illustrazione di Silvia Gariglio

Le motivazioni storiche del disciplinare

Nel precedente articolo abbiamo analizzato e compreso i motivi per cui è stato necessario apporre la denominazione di origine Torino al vermouth.
Ora passiamo ora a comprendere il perché dei parametri produttivi.
Leggeremo il disciplinare nei suoi punti principali ed andremo a dimostrare, con date e documenti, i perché di tali scelte, volte soprattutto a legare in maniera indissolubile il Vermouth di Torino al suo territorio.
Ci soffermeremo solo sui tre aspetti più importanti come vino ed artemisie, direttamente collegati a quanto detto, e sul grado alcolico, oggetto in passato, e anche nel presente, di diverse discussioni qualitative.  
Tralasceremo quindi l’edulcorazione le cui quantità sono rimaste invariate rispetto alla produzione generica, così come l’uso del caramello

Partiamo con la materia prima più importante: il vino.

Questo elemento rappresenta infatti il 75% della massa del prodotto finito e, nel Vermouth di Torino, deve essere 100% di provenienza italiana.
Qualcuno, in passato, all’enunciazione di questo aspetto produttivo, storse il naso, affermando che il Vermouth di Torino avrebbe dovuto essere fatto totalmente con vino piemontese.
Bene, questo tipo di obiezione non è più valida fin dagli inizi del Novecento.
Se il vermouth dei primordi era sicuramente totalmente autoctono, il Vermouth di Torino dalla fine dell’Ottocento vide progressivamente calare la quantità di vitigni autoctoni piemontesi.
Considerati i volumi iniziali, riferendoci alla prima metà dell’Ottocento, non ci sarebbe stato motivo di importare vino da altre regioni, anche solo per una questione legata ai trasporti, di sicuro non molto agevoli. 
Per dare un esempio dei documenti di trasporto di alcune botti evidenziano che, prima dell’arrivo della ferrovia nel 1853, per andare da Torino a Genova fossero necessarie ventisei ore di carro.
I maggiori problemi erano dovuti al valico dell’Appenino Ligure i cui boschi erano infestati da briganti, pertanto la necessità di viaggiare in gruppo rallentava la marcia.
Nel 1906 Arnaldo Strucchi nella sua fondamentale monografia "Il Vermouth d Torino", afferma che solamente il 30% della massa è Moscato di Canelli, il resto è composto da vini in gran parte meridionali o romagnoli.
E sfatiamo il mito che con il vermouth si aggiustavano le vendemmie!
Tutti gli autori di libri sull’argomento mettono in primo piano la qualità del la materia prima.
I vini preferiti dai produttori erano i biotipi del Trebbiano di Romagna o Toscano, il Bombino di Puglia, oppure Doc altamente produttive come l’Alcamo dove il Catarratto rappresenta un minimo del 60% e Locorotondo composto principalmente da Verdeca, un vitigno con ottima acidità.
Cosa successe per determinare un cambio così radicale?
Solo dieci anni prima Luigi Sala nel suo "Liquorista Pratico" del 1896 affermava che il vermouth piemontese è espressione e vanto della sua produzione enologia di altissima qualità.
Tutto è legato al successo di mercato di due prodotti strettamente legati insieme. 
Il vino aromatizzato piemontese sfondò definitivamente sui mercati internazionali, dopo alcune esposizioni nazionali ed internazionali ben riuscite, ricordando quella di Torino del 1884 e di Parigi del 1889, mentre contemporaneamente il Moscato di Canelli ottenne grande successo nella versione spumatizzata.
L’Asti Champagne, la cui produzione fu iniziata da Gancia nel 1878, seguito da Cinzano e da altri vermuttisti, sottrasse materia prima per il vino base. 
Uno dei primi dati ufficiali su vendite ed esportazioni è del 1908, e qui si evidenzia come vengano esportati più di nove milioni di litri di Vermouth di Torino.
Pertanto la produzione di vino locale, per quanto massiccia, non poté sopperire a questi volumi, questo nonostante alcune ottime vendemmie dei primi del Novecento quando si toccò la cifra record di sei milioni di ettolitri.
Oltre ai volumi, alcuni vecchi produttori nelle loro memorie sostengono che l’arrivo dei vini del sud, molto più alcolici di quelli piemontesi consentì un risparmio sulla fortificazione che, come vedremo, spesso era successiva alla macerazione delle erbe.
Inoltre, venendo a mancare i profumi primari del Moscato ai produttori si spalancò la possibilità di poter esaltare la ricetta a base di erbe e spezie, che diventò il vero cardine del successo.

Per rispondere all’obiezione di inizio articolo, se si vuole avere un maggiore legame con il territorio piemontese si deve passare al Vermouth di Torino Superiore
Qui infatti è obbligatoria una percentuale del 50% di vino piemontese nella massa finale del prodotto.
Anche in questo caso non si è voluto dare il 100%, anche se più di produttore autonomamente lo fa, onde evitare di sfidare la natura.
La totalità di vino piemontese avrebbe esposto i produttori ad un rischio non indifferente in caso di una annata storta, peggio ancora se queste dovessero essere due e per di più consecutive. 
Ricordate le annate 2002 e 2003?
La prima seccò i grappoli sulle piante per il troppo sole, e la seconda li fece marcire per la troppa acqua. Il poco vino disponibile veniva messo in bottiglia dai vignaioli e non certo venduto ai vermuttisti, e, nel caso, a prezzi più che raddoppiati. A dimostrazione di ciò alcuni produttori di Barolo, vino a cui spesso si fa riferimento per avere un parametro sulle annate, decisero di non produrre, ma anche un semplice Cortese, divenne caro come un Nebbiolo. 
Pertanto, il solido pragmatismo piemontese ha optato per una scelta forse meno romantica sulla carta ma decisamente più sicura per i mercati, che dà ampi margini di movimento.

Adesso parliamo di artemisio - o di assenzio, che dir si voglia - che deve essere coltivato e raccolto in Piemonte.
Abbiamo visto nell’articolo precedente, come Torino abbia sempre avuto una grande tradizione erboristica.
Nel 1729 viene istituito l’Orto Botanico, dove ovviamente sono messe a dimora molte specie di artemisie; nel 1785 viene fondata l’Accademia di Agricoltura, la prima in assoluto in Italia.
Con l’accrescersi del successo del vermouth diventa necessario lo studio delle artemisie, il principale amaricante, ed in alcuni casi anche l’aromatizzante predominante.
Gli obiettivi principali sono la coltivazione e la corretta conservazione
La raccolta indiscriminata metteva a rischio la sua sopravvivenza: la pianta veniva spesso estirpata per essere lavorata poi con calma a casa,m un’operazione inutile perché la parte utilizzata era solamente il fiore e le foglie più giovani.
Nel 1916 Oreste Mattirolo, titolare della cattedra di Botanica all’Accademia e direttore dell’Orto Botanico pubblica uno studio dove viene individuata Pancalieri come centro di eccellenza per la produzione delle artemisie.
Il piccolo paese a sud di Torino è oggi sicuramente più conosciuto per la famosa menta, ma assenzio romano, gentile e pontico verranno coltivati qui e in molte valli della regione, come quella di Susa che divenne famosa per il Vallesiaco, indicato anche da Mattirolo, ed oggi oggetto di un importante recupero.

Passiamo ora al grado alcolico di 16 gradi, il minimo per essere considerato Vermouth di Torino, al suo massimo 22°.
Giova ricordare che quello del vermouth fuori denominazione è di 14,5, pertanto la differenza è nettamente percettibile. E su questo in passato ci furono molte discussioni.
Ma anche qui abbiamo una documentazione che attesta la scelta di tale parametro.
Sui testi di liquoristica del passato, almeno fino alla fine dell’Ottocento alcuni dosaggi sono liberi.
Lo zucchero è indicato con un quanto basta, segno che tale quantità era influenzata dal residuo zuccherino del vino, fattore tutt’altro che raro dell’enologia del passato quando gli lieviti raramente riuscivano a fermentare completamente il vino.
Anche la gradazione non viene indicata, segno che il commercio locale che si faceva del vermouth non aveva necessità di tale criterio qualitativo.
Con il commercio del vermouth a livello globale e soprattutto con l’inizio della sua tassazione era fondamentale conoscerne il contenuto alcolico.
Nei primordi il Vino Vermouth, così era chiamato, godeva della medesima gradazione del fermentato e non di quella dei liquori, nettamente maggiore.
C’era un vermouth di città, consumato “fresco” dentro le mura ed un vermouth di mare o detto da Esportazione. Molte ricette ritrovate sui manuali hanno, fra parentesi, il nome della città straniera a cui il vermouth era destinato, e si ricordano tipo Amburgo, Stoccolma o Parigi.
Il primo non necessitava di gradazioni elevate, sui testi si parla di 13 o 15 gradi massimi, ricordando che un vino del passato era considerato molto alcolico già a 12.5.
Questo perché non doveva viaggiare e sopportare le temperature elevate delle stive delle navi o nei vagoni di un treno merci.
Mentre il secondo, sempre leggendo i suggerimenti di Strucchi e Mensio, altro enologo fondamentale per il vino piemontese, doveva essere almeno 16 gradi a salire.
Per arrivare a queste conclusioni i nostri due tecnici fortificavano e spedivano il vermouth in vari posti nel mondo, chiedendo poi di conoscere lo stato di conservazione finale.
Se ne deduce che i vermouth da spedire in Europa, ricordando quella di Parigi del 1889, doveva essere quanto meno sui 16 gradi e mezzo, mentre quello che viaggia per mare poteva arrivare anche a 22. 
Il caldo e la conseguente evaporazione del liquido porteranno il prodotto, al suo arrivo ad una gradazione prossima ai 18/20 gradi. 
Infine, un Regio Decreto del 1935, uno dei primi tentativi di dare dei parametri produttivi a questa eccellenza italiana che aveva già molti tentativi di imitazione, si fissava in minimo 15.5 la gradazione del Vermouth di Torino.
Da qui la scelta di vincolare a 16 gradi ed un grado in più, 17 per il Superiore, seguendo quello che già accade per il vino.

Chiudiamo con l’ultimo parametro del disciplinare, che non abbiamo enunciato all’inizio: l’imbottigliamento esclusivo nella Regione Piemonte.
Ma, dopo tutto queste parole... è necessario aggiungere altro?
Cin Cin!

Dopo questa lezione vi è venuta sete, vero?
Dopo questa lezione vi è venuta sete, vero?
Fulvio Piccinino

Fulvio Piccinino

Fulvio Piccinino, torinese, classe 1967, barman, docente, scrittore di liquoristica italiana, appassionato di carta vecchia.

Silvia Gariglio

Vive a Torino dove lavora come illustratrice freelance. La tecnica che utilizza maggiormente è l'acquerello su carta: lascia che siano i movimenti dell'acqua e la sovrapposizione delle macchie di colore a portare alla luce le forme e a dare risalto a ombre e volumi.