Gli amari in miscelazione hanno una lunga storia, il cui racconto è estremamente interessante poiché intimamente legato alle mode che si sono susseguite nei decenni, dove si è alternato il gusto secco e dolce.
Partiamo con il dire che l’Italia è l’unico Paese in cui il suo cocktail simbolo, l’Americano, abbia l’unione di due prodotti amari, mentre nella maggioranza degli altri paesi domina l’asse dolce acido.
Inoltre, possiamo dire, senza ombra di dubbio, che l’Italia sia il paese dell’amaro con decine di prodotti territoriali altamente connotati dalle caratteristiche delle cucine regionali.
Era pertanto inevitabile che nel Bel Paese nascesse una miscelazione che assegnasse agli amari il ruolo di grandi coadiuvanti.
Negli anni Sessanta, il giornalista Paolo Monelli, scrisse che gli amari erano ottimi vermouth senza vino.
Prendendo per buono quanto detto, il pensiero va immediatamente a dei twist dove il vino aromatizzato sia uno degli assi portanti o il principale candidato ad essere sostituito.
È altresì vero che in principio fu l’Angostura, l’aromatic bitter più famoso del mondo, divenuto firma di molti bartender e le cui gocce facevano capolino in qualunque miscela a cavallo ai primi del Novecento.
Sfogliando le pagine di alcuni libri di miscelazione del periodo era praticamente impossibile leggere una pagina senza che su di essa non ci fosse un cocktail con questo amaricante ingrediente.
L’uso degli amari italiani fu figlio di questa tendenza al bere secco ed amaro di questo periodo.
Il Fernet, un super amaro privo di zucchero, fu il sostituto dell’Angostura in alcuni cocktail ben riusciti, dove assolveva il compito di rendere complesso il vermouth, che nel frattempo, in alcune versioni stava diventando amabile.
A tal proposito, concentriamoci sull’Americano e sulle sue ricette degli anni Trenta.
Oggi è una miscela in pari quantità di bitter e vermouth, mentre nel periodo analizzato la quantità del secondo era uno a due.
La prima spiegazione di questa scelta verrebbe dal costo: anche in passato il produttore spendeva sicuramente meno per una base vinosa che una per alcolica. Il vino, infatti, non pagava accise e anche se il vermouth ne conteneva per la sua fortificazione, aveva ed ha una tassazione dedicata sicuramente vantaggiosa. Pertanto, in una logica moderna di drink cost era sicuramente preferibile questa soluzione. Ma a ben guardare, avendo modo di replicare qualche ricetta storica di vermouth a scopo di ricerca, non si può non cogliere, leggendo la scelta delle erbe, la loro grammatura e l’introduzione dello zucchero in quantità prossime al 14%, una netta diminuzione del tono amaricante. In pratica, i vermouth del passato erano decisamente più amari di quelli prodotti nel Secondo dopoguerra.
Da qui probabilmente la decisione di pareggiare la dose con il bitter, in modo da non perdere il bilanciamento originale.
Questa analisi sembrerebbe corretta, e sicuramente in parte lo è, ma le avvisaglie di una superiore dolcificazione dei vermouth si ritrovano anche nella nascita del cocktail Punto e mezzo, con l’aggiunta di una mezza dose di Elisir China, uno dei capisaldi della scuola degli amari.
Sul "1000 Misture" di Elvezio Grassi si trovano due ricette di Americano dove entrano in gioco altri due amari simbolo della produzione italiana: il già citato Fernet ed il Felsina, una tipologia resa famosa da Ramazzotti, a lungo in concorrenza con un produttore bolognese, Buton, sicuramente più noto per il suo brandy.
L’Americano Branca con una mezza dose del suo amaro, e il Cicone Beltrame con l’amaro divenuto simbolo della Milano da Bere, sono il classico esempio di come questi possano sostituire il bitter.
In passato ed anche in tempi più recenti il concetto di twist è stato più volte ripreso sostituendo però il vino aromatizzato invece che la base alcolica, ricordando il Milano Milano, con Rabarbaro Zucca e Bitter Campari.
Negli anni Novanta la miscelazione degli amari, grazie anche alla spinta pubblicitaria di alcune marche, riprese forza e ci furono alcuni cocktail molto riusciti.
Citiamo il Delsio con 1/5 Rabarbaro Zucca, 2/5 Bitter Campari, 2/5 China, Martini e 4 gocce di Fernet, shakerato servito in tumbler con scorza di arancia; ricordiamo poi il Gritti con 1/6 di China Martini, 2/6 Bitter Campari e 3/6 di Vermouth Dry preparato nel Mixing glass, servito in tumbler con scorza di arancia; ricordiamo, per finire, il Ramatonic, ovvero il tentativo di ridare il ruolo di bevanda dissetante all’amaro utilizzando il coadiuvante più alla moda del periodo.
I primi due cocktail sono contenuti sul libro di Gino Marcialis, "1000 Cocktails" pubblicato a metà degli anni Novanta e rimangono gli esempi più fulgidi di un gusto amaro che si ritagliava il suo spazio in un mondo di dolci cocktail da discoteca colorati di blu.
Paradossalmente questo fu il colpo di coda dell’amaro, che entrò in profonda crisi di consumi e di identità nel decennio successivo.
Una quasi totale assenza di comunicazione, la vendita di alcune aziende a gruppi stranieri, fecero da sottofondo ad una stagnazione dei consumi che divennero praticamente casalinghi o relegati a sporadici nostalgici dopocena.
Con il ritorno della miscelazione classica sono tornati anche loro e, tralasciando il classico Hanky Panky e il neonato Paper Plane, il ritorno prepotente del Negroni, il cocktail che negli ultimi anni è sul podio dei più bevuti al mondo, e la rivincita dell’Americano le opportunità di twist si sono moltiplicate.
Sostituire il vermouth o il bitter con amari ben equilibrati è un gioco da ragazzi se si conosce il prodotto ed il mestiere del miscelatore.
Non rimane che scatenare la fantasia per trovare nuove ed affascinanti alternative.