Si fa presto a dire birra: famiglie, tipologie, sigle

Si fa presto a dire birra: famiglie, tipologie, sigle

Di Simone Cantoni

Illustrazione di Antonio Bonanno

5 minuti

“Classificazione”: una parola, diciamocelo, poco accattivante, non propriamente “calda”.

Un termine da mansione archivistica, da pratica di catalogazione, da lavoro d’inventario con tanto di interminabili odissee compilative, tra scartoffie, file di faldoni e scaffalature: roba snervante, insomma, da mal di testa e occhiaie come borse della spesa. 

La compagna invisibile 


Eppure, a ben vedere, con la classificazione si ha tutti a che fare in parecchi momenti della giornata.
Specialmente in ambito alimentare e anche nel segmento specifico – ciò che ci interessa qui – occupato dalla birra (tanto più se artigianale).
Certo, non è che, di fronte alla prospettiva di una pinta fresca (schiuma paffuta, vetro opaco di condensa, qualche goccia che scende giù dal bordo), il pensiero corra, coscientemente, all’idea della “classificazione”.
Anche perché, se lo facesse, probabilmente si smonterebbe in gran parte la poesia, si affloscerebbe alquanto l’afflato del desiderio.
È però così che funziona, il segreto è che quel collegamento mentale avviene, appunto, in modo spesso non consapevole; ma al contrario sottotraccia. Un po’ come se la “bussola interiore” che ognuno di noi possiede operasse in automatico, orientando le mosse di ciascuno senza che necessariamente ce se ne accorga.

Rifletteteci: di fronte a una bella vetrina di formaggi, come si regola l’acquirente?

“Il Camembert no, perché il profumo non mi piace” > La sua “bussola” gli sta sussurrando all’orecchio: è una “crosta fiorita”.

Il Gorgonzola neanche, perché è un po’ troppo sapido, a volte pure piccante. E poi, l’odore è un po’ pungente” > La bussola suggerisce: è un “erborinato”. 

Robiola di Roccaverano: mah! L’aroma mi risulta un po’ indigesto > La bussola: è un prodotto, in tutto o in parte, a latte caprino, col suo “naso” tipicamente animale. 

“L’Asiago Riserva, ecco: sì, prendo quello!” > La bussola chiosa: è un latte vaccino a media stagionatura. 

Insomma, lo si è capito: ragionamenti e gesti (scelgo, valuto, compro) vengono indirizzati lungo i percorsi della classificazione. 

Qual è quindi il punto? Che se si compie lo sforzo di consapevolizzare il processo, i suoi risultati – ho fatto un buon acquisto, sono proprio soddisfatto – saranno più sotto controllo e, statisticamente, più affidabili.
In soldoni,
migliori

L’universo della birra e il suo ordinamento


Ecco, quel che abbiamo immaginato succeda al reparto “specialità casearie” succede anche al bancone di un pub o di fronte a uno dei suoi frigoriferi. E dunque è inevitabile, prima o poi, dover orientarsi – e a farlo il più efficacemente possibile, cioè con cognizione – entro la “mappatura” delle classificazioni brassicole (ossia “relativo al mondo della birra”).

Questa classificazione può essere rappresentata come una sorta di piramide, sotto il vertice della quale (occupato dalla voce “birra” nella sua dimensione monolitica e, a ben vedere, alquanto astratta) c’è il “piano” della suddivisione in “grandi famiglie”; e sotto ancora c’è il livello della ripartizione in “stili” o “tipologie”; categorie le quali, a loro volta, sono passibili di contenere ulteriori gruppi di specificità, chiamati lapalissianamente “sottostili” o “sottotipologie”

Prepariamoci dunque a una visita ai vari compartimenti nei quali si articola la “piramide”; una struttura i cui blocchi costitutivi corrispondono comunque agli ingredienti fondamentali del prodotto

Vediamoli velocemente. 

Il primo è l’acqua, con la peculiarità del suo profilo chimico-fisico, variabile da caso a caso.
Il secondo è costituito dai cereali con cui (macinati e ammollati) si prepara il mosto: cereali usati tal quali oppure fatti germinare, cioè convertiti in malto, e quindi essiccati fino a ottenere colori e connotati organolettici diversi (con sensazioni quali ad esempio crosta di pane, biscotto, caramello, calotta di dolce da forno, caffè e via dicendo).
Terzo insieme di ingredienti: da un lato i luppoli (ne sono coltivate oltre 200 varietà), ognuno con il rispettivo, e specifico, contributo amaricante e aromatico (dai temi floreali agli speziati, da quelli agrumati ai resinosi…); e dall’altro lato gli altri possibili “additivi” gustolfattivi, come ad esempio spezie o erbe aromatiche.
Quarto ingrediente, infine, l’elemento che trasforma lo zucchero del mosto in alcol e anidride carbonica: i lieviti e, accanto a loro, altri fermenti “meno convenzionali”. 

Le grandi famiglie birraie


Riportiamo però, di fronte allo sguardo, la sagoma della piramide nella sua interezza: la nostra ricognizione sta per cominciare. Sotto il vertice – si diceva – troviamo la prima ripartizione: quella rappresentata dall’individuazione di alcune cosiddette “grandi famiglie” brassicole; ciascuna delle quali corrisponde a una specifica modalità di fermentazione.
Così abbiamo la famiglia delle birre definite “a bassa fermentazione”; quella delle birre “ad alta fermentazione”; quella delle “fermentazioni spontanee”; e volendo essere scrupolosi anche le fermentazioni “ibride” e quelle “miste”.

Diamo un’occhiata da più vicino…

Basse fermentazioni (o Lager). La trasformazione degli zuccheri in alcol (dunque del mosto in birra) è affidata a lieviti della specie Saccharomyces Pastorianus, i quali operano al meglio tra 7 e 13 °C (da cui il loro appellativo di lieviti, appunto, “a bassa fermentazione”). Loro peculiarità è di essere neutri: di non aggiungere niente (o quasi), in termini di apporto organolettico; la personalità sensoriale della birra, insomma, è data dagli altri ingredienti di base: cereali e luppoli in primis

Alte fermentazioni (o Ales). In gioco, qui, ci sono lieviti della specie Saccharomyces Cerevisiae, i quali operano al meglio tra 13 e 25 °C, alcuni ceppi anche ben oltre tale soglia termica. Loro peculiarità è di essere non neutri: nel corso del processo fermentativo, anzi, generano composti aromaticamente attivi (ad esempio gli esteri, portatori di profumi fruttati), introducendo contributi organolettici supplementari in aggiunta a quelli già conferiti dagli altri ingredienti. 

Fermentazioni spontanee. Si tratta di birre – tra esse i tradizionali Lambic belgi – preparate lasciando che il mosto venga spontaneamente inseminato da tutte le dozzine di microorganismi insediati in quello spazio fisico: lieviti del genere Saccharomyces (i convenzionali), lieviti del genere Brettanomyces (detti selvatici), batteri lattici e di altre specie.
Il prodotto finale assume un carattere acido e rustico, con notevoli spigolosità gustative e olfattive. 

Fermentazioni miste. In questa famiglia rientrano birre la cui procedura di lavorazione prevede l’impiego di lieviti del genere Saccharomyces e di fermenti meno convenzionali, secondo un protocollo operativo in cui però a guidarne l’intervento è il produttore, operando dunque in una cornice di sostanziale controllo del processo. 

Fermentazioni ibride. Una sorta di “fascia di sovrapposizione” a cavallo dei territori corrispondenti, da un lato, alle Ales e, dall’altro, alle Lager. In particolare, può trattarsi di birre prodotte con lieviti “a bassa” ma fatti fermentare oltre i 13 °C; oppure con lieviti “ad alta” fatti lavorare al di sotto di quella soglia termica “di confine”.

Le "tipologie" o "stili"


Terminato il giro al livello delle “grandi famiglie” birrarie, scendiamo al sottostante dove troviamo che ciascuna di quelle famiglie è suddivisa, al proprio interno, in “tipologie” (o “stili”).
Così, tra le fermentazioni spontanee, abbiamo tipologie quali la Gueuze, la Kriek o la Framboise. Mentre all’interno del recinto generale delle Lager, contiamo altre e diverse tipologie: ad esempio la Pils, la Munich Helles, la Vienna, la Schwarzbier, la Märzen, la Bock, la Doppelbock e tante altre ancora.
Varcando poi lo steccato che delimita l’area delle Ales, ecco che incontriamo stili corrispondenti a nomi quali Porter, Stout, Bitter, India Pale Ale e Barley Wine (per citare alcune tipologie facenti capo alla scuola britannica); oppure designazioni quali Saison, Witbier, Dubbel e Tripel (passando a “generi” tipici della tradizione belga); e ancora denominazioni come Hefeweizen, Dunkelweizen e Weizenbock (queste alcune “alte fermentazioni” di ascendenza tedesca); per non dire delle numerosissime Ales di matrice statunitense, dalle American Pale Ale alle American IPA, dalle Session IPA alle Double IPA, dalle Cream Ale alle California Common. 

Bene, d’accordo. Ma cosa significa, per un consumatore, riceve l’informazione per cui una birra dichiara la propria appartenenza a una determinata tipologia?
Ecco, significa più o meno questo: quella certa birra (a meno che il produttore non abbia tradito tale “patto implicito” con il consumatore stesso) deve presentare le fattezze organolettiche previste per la propria tipologia di riferimento.
Ogni stile è codificato secondo specifici parametri sensoriali: colore, schiuma e grado di limpidezza; intensità olfattiva e timbriche aromatiche; intensità gustativa e comportamento al palato (se più incline al dolce o all’amaro o all’acido o al sapido); caratteristiche del “corpo” e dell’effervescenza, sensazione di eventuale calore alcolico e via dicendo.
Insomma, una birra, per poter qualificarsi (ad esempio) come una Pils, deve presentare le connotazioni organolettiche fissate per le Pils e per conseguire tale corrispondenza, dev’essere prodotta con quei particolari cereali e non altri, con quei luppoli e non altri, con quei lieviti e non altri (ciascun ingrediente nelle quantità prevista).
Mentre un’altra birra, che voglia circolare sul mercato con la dicitura di Witbier, deve esibire la “costruzione sensoriale” stabilita per le Witbier e a tal fine deve essere preparata facendo uso di certi cereali, di certi luppoli, di certe spezie e di certi lieviti (non altri), impiegando ciascuna di tali componenti nelle quantità opportune (e non altre). 

Per chiudere questa nostra prima introduzione nel mondo delle birre: se, da consumatore di vino, io conosco le caratteristiche che hanno il Chianti Classico, l’Amarone della Valpolicella e il Taurasi, posso decidere come meglio orientare i miei acquisti. Allo stesso modo, posso districarmi più agevolmente di fronte all’impianto di spillatura di un pub, se conosco come debba rivelarsi all’assaggio, una Bock, una Stout, una Tripel o un’American IPA. 

È la legge della classificazione, bellezza…

Simone Cantoni

Simone Cantoni

Pisano, 1967, esperto di vino, formaggi e salumi, si occupa soprattutto di birra. Ricopre ruoli di giornalista, consulente, docente e giudice con qualifica BJCP in concorsi nazionali e internazionali. È autore di pubblicazioni, in particolare sul tema degli abbinamenti.

Antonio Bonanno

Nato a Catania nel 1970, è autore e illustratore di albi per ragazzi. “Premio popolare” al contest “Stop” 2022 e selezionato al contest “Caos” 2019, indetti dall’associazione Tapirulan. Attualmente vive a Bergamo dove insegna illustrazione e grafica pubblicitaria sia nel pubblico che nel privato.