Le birre e i ragù

Le birre e i ragù

Di Simone Cantoni

Illustrazione di Cesco Rossi

4 minuti

Birra e cucina: che passioni! E che roba, quando vanno a braccetto: che spettacolo, quello che può uscirne. Ecco, a questo binomio (ai suoi molteplici risvolti, nonché alle sue enormi potenzialità), Around the Blog vuol
dedicare uno spazio periodico: aprendo, via via, una finestra affacciata ogni volta su un tema diverso e specifico; partendo talora da una specialità alimentare, talora da una tipologia brassicola. Ebbene, il compito di inaugurare questa nostra rubrica tocca a una tra le preparazioni più care alla gastronomia del nostro Paese: il ragù di carne.

 

Non esiste “la” birra, non esiste “il” ragù

Cominciamo col chiarire un punto. È ormai pacifico che “La birra non esiste: esistono le birre” (la citazione è riferita a una celebre massima di Lorenzo Dabove, in arte Kuaska, il decano dei degustatori italiani; ed è divenuta una sorta di mantra per il nostro intero movimento artigianale). Ovvero: talmente numerose e differenti sono le declinazioni popolanti il mondo brassicolo (Pils, Weizen, Bitter, Saison, Blanche…), per cui non si può banalizzarlecomprimendole in un concetto espresso al singolare.
Ecco, allora, per il medesimo motivo, dovremo usare la stesso approccio riferendoci al ragù: il quale trova così tante interpretazioni, da rendere opportuno indicarle in modo esplicito; e dunque parlare delle versioni (per esempio) alla bolognese, alla napoletana, alla toscana, alla pugliese

Uniamo il vario mondo brassicolo, al vario mondo dei ragù.
Uniamo il vario mondo brassicolo, al vario mondo dei ragù.

Una ricetta italiana… d’adozione

La preparazione – va detto, per onestà intellettuale – nasce in Francia. Con il nome di ragoût (la grafia non mente), la cui etimologia viene ricostruita nei termini di una derivazione dal verbo ragoûter, cioè risvegliare l'appetito. Missione, peraltro, non difficile da assolvere: giacché la ricetta originaria pare consistesse in una robusta quantità di carne stufata con copioso condimento e servita in tavola come contorno di altre portate. Nel corso del tempo – siano benedette le contaminazioni del costume alimentare – quella specialità di provenienza transalpina mette poi radici nel nostro Paese; ne viene adottata, assumendone la cittadinanza ad honorem; acquisisce la connotazione di salsa destinata a guarnire i primi piatti a base di pasta; e penetra nei ricettari dello Stivale a un po’ tutte le sue latitudini, dando luogo – come anticipato – a tutta una serie di interpretazioni regionali.

Comuni denominatori e fattori variabili

Possibile è, comunque, individuare una piattaforma comune (di ingredienti e procedure) che, del ragù, associa trasversalmente più o meno tutte le declinazioni. Si tratta infatti, come concetto fondamentale, di un sugo di carne (in pezzi o macinata) fatta rosolare e ritirare lungamente a fuoco basso, con aromi e, solitamente, pomodoro (quest’ultimo canonizzato peraltro in tempi non recentissimi: l’Artusi non ne prevedeva l’uso ancora nel suo manuale del 1891).
Ecco, su questo spartito di base, s’innestano poi le variazioni di cui si diceva: alcune delle quali codificatesi come specifiche interpretazioni regionali. Ad esempio la bolognese: con polpe sia di manzo sia di maiale, unite a un trito di cipolla e verdure. Oppure la napoletana: il cui rito prevede l’uso di soli tagli bovini, rinunciando a qualsiasi battuto vegetale.
E ancora la toscana: nella quale, spesso, rispetto alla ricetta felsinea, fanno capolino i fegatelli di pollo. Per non tacere, infine, della tipologia pugliese: detta ragù di braciole, perché preparata con involtini di carne bovina o equina (quest’ultima più aderente alla tradizione), riccamente farciti (il ripieno include prezzemolo, aglio e pecorino), per poi essere cotti pazientemente su una salsa, appunto, di pomodoro. 

Un tripudio del palato

Quale che sia la versione, il ragù imprime alla pasta che lo accoglie (tipiche le tagliatelle in Emilia, i rigatoni in Campania, le pappardelle in Toscana e le orecchiette in Puglia) un sapore intenso, articolato e persistente: una vera e propria impennata di sensazioni che investe il papato, facendolo esultare. In abbinamento, occorre tenerne presente il vigore che richiede, al bicchiere-partner, una pari energia. Poi, della nostra salsa, c’è da considerare il contenuto in grassi (attorno al 16%): che pretende, per rifare ordine in bocca dopo la masticazione, una sorsata provvista di appropriate doti in bollicina, acidità, alcolicità (da sole o in combinazione).
E ancora, bisogna valutare, del sugo, le dominanti olfattive e gustative. Queste ultime, essendo di prevalenza dolce-sapida, ma non estranee a venature acidule (il pomodoro, le cipolle) e piccanti (il pepe, se usato), chiedono una bevuta un timbro morbido-dolce, di certo non amaro né astringente. Mentre le dominanti olfattive, improntate alle tostature derivanti dai processi di cottura a carico degli ingredienti, suggeriscono di orientarsi verso birre il cui naso sia caratterizzato da tematiche analoghe o quantomeno affini.

Abbinamenti con la pinta: tre idee golose

Ricetta francese di nascita e naturalizzata italiana? E allora, in tavola, diamo un contributo alla costruzione della casa comune europea: stili birrari di ascendenza tedesca! Le sentite, nell’aria, le note dell’Inno alla gioia? Ecco, non potrebbe esserci colonna sonora più appropriata, perché ci apprestiamo a presentare un triplice matrimonio davvero festoso.
Il primo connubio è quello con una tipologia nata appositamente come brindisi, appunto, per celebrare una festa; e che festa: nientemeno che l’Oktoberfest. Sì, stiamo parlando della Märzen: una bevuta di colore ambrato che, con i suoi aromi da crosta di pane ben cotta, aggancia le tostature del ragù; con il suo fin di bocca asciutto ma non amaro, asseconda la sapidità del boccone; mentre con il combinato tra la sua frizzantezza (spigliata) e la sua gradazione (5.6-6.3%, statisticamente) massaggia a dovere la materia grassa della salsa. Bene, se queste appena riassunte sono regole d’ingaggio adeguate, tanto più lo risulteranno quelle garantite dalla seconda tipologia candidata al ruolo di partner. Ovvero la Bock, la birra recante il nome del montone, allusione alla sua forza alcolica. Già, perché qui i gradi etilici salgono a una fascia (sempre statisticamente) compresa tra il 6,3 e il 7,2%, il che assicura un ancor più efficace lavoro di fluidificazione della materia lipidica in circolo. Così come, a migliorare, è anche la gestione della sapidità espressa dal boccone: la sorsata, infatti, si rivela ancor più rotonda e avvolgente. Quanto alle interazioni olfattive piatto-bicchiere, si rimane lungo il binario del dialogo tra tostature. Basta scegliere, preferibilmente non una Helles Bock (la versione dorata), ma una Dunkles Bock (ramata o bruna), che si distingue appunto per profumi quali la crosta di pane ben cotta (di nuovo) e la frutta secca (nocciola, mandorla).
Sempre più in alto? E sia! Dalle latitudini della Bock si salta a quelle della Doppelbock. In soldoni? Una gradazione che oscilla (statisticamente, ormai lo si è capito) tra il 7 e il 10%; il tutto in una cornice organolettica sostanzialmente simile (fin dal colore, un bel bruno profondo) a quella tratteggiata per la Bock stessa, se non per una corporatura e una rotondità palatale ulteriormente in crescita. Insomma: torna il duetto odoroso delle tostature tra piatto e bicchiere; torna il contrasto armonico tra il sapido della pasta e la morbida rotondità della sorsata…
E dunque, sotto con birra e ragù di carne: nozze approvate!

Simone Cantoni

Simone Cantoni

Pisano, 1967, esperto di vino, formaggi e salumi, si occupa soprattutto di birra. Ricopre ruoli di giornalista, consulente, docente e giudice con qualifica BJCP in concorsi nazionali e internazionali. È autore di pubblicazioni, in particolare sul tema degli abbinamenti.

Cesco Rossi

Nato a Torino nel 1989, il suo linguaggio ironico e surreale, si muove attraverso le arti visive dell’illustrazione digitale, della pittura su tela e della grafica.