Riprendiamo il nostro viaggio lungo la storia della birra.
Se hai perso il primo capitolo, lo trovi qui.
Il ricorso a ingredienti e modalità di lavorazione decisamente variabili, con il conseguente articolarsi dei risultati sensoriali ottenuti, ha da sempre indotto ad adottare altrettanto differenti denominazioni al fine di identificare i vari generi birrari in funzione del rispettivo e specifico profilo organolettico: denominazioni definite come tipologie o stili.
Non di rado tali designazioni hanno coinciso con un toponimo: quello corrispondente alla zona d’origine di una determinata birra. Così, in Germania, già dal XIV secolo la città di Einbeck (Bassa Sassonia) si specializza nello sfornare prodotti a medio-alto tasso alcolico che vengono designati appunto come Einbeck Bier, locuzione poi modificatasi in Ein Bock Bier, sfruttando la forza evocativa dell’immagine del muflone (Bock, appunto) nell’alludere proprio alla forza alcolica della bevuta.
Qualche secolo più tardi, a Monaco di Baviera, vede la luce una versione ulteriormente palestrata della Bock, geometricamente chiamata Doppelbock; la prima delle quali è la Salvator: il cui battesimo trae spunto da una ricostruzione, sempre fra storia e leggenda, dai contorni curiosi e divertenti. Prologo: in un convento della città s’insediano, dal 1627, alcuni frati appartenenti all’ordine dei Minimi, detti in italiano paolotti e in tedesco paolani, dal nome della città di provenienza del fondatore dell’ordine medesimo, ovvero San Francesco di Paola (comune calabrese in provincia di Cosenza). Ebbene, come spesso accade in una comunità religiosa, anche questa, durante la Quaresima, pratica la consuetudine di preparare una birra particolarmente alcolica, così da poter meglio sostenere l’obbligo, vigente in quella fase di avvicinamento alla Pasqua, di osservare periodi di digiuno, rinunciando ai cibi solidi: prescrizione che invece non riguarda quelli fluidi, in base al principio per cui liquidaieiunium non frangunt. Ora, la leggenda narra che quella birra fosse piuttosto buona: magari un po’ troppo per settimane che dovrebbero rispettare un clima penitenziale. Così, forse sollecitati anche da un’iniziativa di produttori laici indispettivi (tanto da aver bussato alle porte del palazzo vescovile, allora a Frisinga), i frati si risolvono a chiedere un pronunciamento da parte, nientemeno, che del Papa stesso.
Siamo nel 1634, l’Europa attraversa un passaggio della propria storia climatica che, in virtù delle temperature rigide, prende il nome di Piccola era glaciale; ma al contrario, la primavera di quell’anno specifico si rivela piuttosto calda e umida. E succede perciò che le botticelle inviate, valicando le Alpi, fino a Roma, vi arrivano malconce, in particolare inacidite. Il compito di giudicarle spetta al pontefice di allora, Maffeo Vincenzo Barberini (1568-1644), eletto nel 1623 con il titolo di Urbano VIII. Ora non è certo se a provare la birra incriminata sia lui stesso o un suo assaggiatore; l’atmosfera, in Vaticano, non era delle migliori: il Santo Padre, in quello stesso anno, avrebbe subito un tentativo di attentato alla propria vita, mediante l’esercizio di magia nera. Poco importa, a noi, chi le butti giù per la gola: fatto sta che le sorsate sottoposte ad arbitrato risultano essere imbevibili; una purga, via: e pertanto, sì, abbastanza punitive da risultare idonee alle privazioni quaresimali. I frati mai si sarebbero aspettati una sentenza di proscioglimento: la considerano quindi un piccolo miracolo e concordano che la birra assolta debba essere dedicata a Nostro Signore, battezzandola appunto col nome di Salvator. Una birra che, con quel nome ancor oggi esiste, sotto le insegne di un marchio, la Paulaner Brauerei, evidentemente erede della tradizione avviata dai paolani di Monaco…
Nello stesso Seicento (le fonti indicano per la precisione il 1642) in Inghilterra si brevetta il forno a getto d’aria per l’essiccazione dei malti da birrificazione, in sostituzione della sistema a fiamma diretta, dando la possibilità di ottenere diversi livelli di cottura dei semi e diverse gradazioni di colore nel prodotto finito. Fioccano nuove designazioni tipologiche: le pinte più chiare assumono, ai primi del Settecento, la denominazione di Pale Ale, in quanto più pallide rispetto alla media corrente (in realtà si tratta di tonalità ambrate).
Le altre, di tinta diciamo bruna, s’incamminano verso un percorso di ulteriore e crescente inscurimento, destinato a culminare nella comparsa in scena, negli anni Venti del XVIII secolo, di stili battezzati come Porter (dalla passione suscitata nei lavoratori del porto fluviale di Londra: i porters, appunto); e come Stout Porter o semplicemente Stout (in sostanza, versioni più forti delle prime: essendo stout un termine slang utilizzato al posto di strong).
Peraltro, la ramificazione in generi e sottogeneri è destinata a procedere ancora nei decenni di transizione verso e oltre la soglia dell’Ottocento. Quando, nel grembo delle Pale Ale, le versioni più alcoliche e luppolate si autoselezionano come le più adatte a sostenere il viaggio verso l’India, fortemente esposto al rischio di batterizzazioni date le condizioni climatiche (con alti livelli di temperatura e umidità) che accompagnano la traversata lungo le latitudini tropicali ed equatoriali.
Così, quelle varianti più robuste prenderanno, tra il 1829 e il 1835, il nome di India Pale Ale, in acronimo IPA. Ragioni di carattere analogo, ossia meteorologico, determinano una gemmazione stilistica anche in seno alle Stout: tra le quali, le più carrozzate, in termini di stazza etilica, riescono ad affrontare meglio la rotta commerciale verso est, verso la Russia degli zar, la cui corte consuma con avidità beni materiale e immateriali di provenienza occidentale. Una rotta che procede dalla Manica verso il Mare del Nord e poi il Baltico, fino a raggiungere i porti delle attuali Estonia, Estonia e Lituania; cioè un tragitto lungo il quale il termometro, spesso in picchiata sotto lo zero, provoca il congelamento della birra e la sua dilatazione, tanto da squarciare le botticelle di confezionamento. Uniche a salvarsi da tale minaccia sono appunto le interpretazioni a maggiore gradazione, che già nel XIX secolo prendono a essere designate come Imperial Russian Stout o semplicemente Imperial Stout.
Nel Novecento l’evoluzione non si ferma: anzi, accelera. Sotto la spinta, ad esempio, di nuovi procedimenti e nuove varietà di luppolo: tra le quali, a spopolare per notorietà e livello di gradimento, sono quelle di ascendenza statunitense; una genealogia estremamente prolifica, inaugurata, nel 1971, con la messa in commercio della varietà battezzata come Cascade. L’applicazione di questa cultivar e delle successive (numerosissime) alle birre tradizionali europee, britanniche in specie, fa sì che, da queste ultime, traggano vita versioni organoletticamente così diverse da meritare, col tempo, un inquadramento stilistico a sé stante. Così, partendo dalla Pale Ale, per gemmazione, abbiamo la American Pale Ale o APA; partendo dalla IPA abbiamo l’American IPA; e così via, seguendo la medesima logica di classificazione imperniata attorno all’aggettivo american. Ad esempio, la tipologia britannica conosciuta come Barleywine (tradotto, vino d’orzo; la tipologia ammiraglia, per grado alcolico, nel repertorio del Regno Unito) dà luogo, per ramificazione, all’American Barleywine: al naso più profumato (agrumi, resine) e al palato più amaro. Quanto? Per capirlo ci scappa un aneddoto. Una tra le prime interpretazioni del nuovo genere brassicolo è la Big Foot, etichetta lanciata nel 1983 dal marchio Sierra Nevada (a Chico, California). Proprio nei mesi del debutto, alcuni campioni ne vengono inviati a un laboratorio d’analisi; i cui operatori, avendoli assaggiati, si prendono la briga di scrivere al mittente, facendo presente come il prodotto, forse, sia appunto un po’ troppo amaro.
Risposta del birrificio? Eccola qua: Grazie mille! Come dire: Occhio, non è che l’inizio; the best is yet to come…